Introduzione alla seconda edizione di "Il Sistema per uccidere i popoli" di Guillaume Faye
Robert Steuckers |
Testo principale: Il sistema per uccidere i popoli di Guillaume Faye]
Guillaume Faye è stato il vero motore del GRECE, la principale organizzazione della “Nouvelle Droite” in Francia all’inizio degli anni Ottanta. Spinto da un inaudito dinamismo, una foga ineguagliata in questo ambiente, una vitalità straripante ed una espressione verbale fatta di folgorazioni sorprendenti e seducenti, Guillaume Faye — come lui stesso amava dire — era stato molto segnato dalla lettura dei testi situazionisti della scuola di Guy Débord. Semplificando ad oltranza, o volendo riassumere il nocciolo essenziale/esistenziale del suo cammino, potremmo dire che Faye denunciava l’impantanamento ideologico del dopo ’68 (quello, per intenderci, dei Seventies e dell’era giscardiana in Francia), percepito come uno “spettacolo” stupido, sciatto, senza risalto. Faye entra in scena, quasi da solo, tra l’uscita dei sessantottini e l’entrata degli yuppie reaganiani.
Nel n. 2 della rivista “Eléments”[edizione Web], che è stata e resta maestra del primo cenacolo della Nouvelle Droite francese, riunito intorno all’inamovibile Alain de Benoist, si vede una fotografia del giovane Faye, all’età di 23 anni, nel periodo in cui lavorava all’Università nel “Cercle Vilfredo Pareto”. Nella sua opera scientifica Sur la Nouvelle Droite, Pierre-André Taguieff traccia brevemente la storia di questo “Cercle Vilfredo Pareto” (p. 183), diretto da Jean-Yves Le Gallou, oggi deputato europeo del Front National di Jean-Marie Le Pen. Nel 1970 il GRECE mette in piedi la sua “Unité Régionale Paris-Ile-de-France” (URPIF), di cui il “Cercle Vilfredo Pareto” è la punta avanzata in seno all’Istituto di Studi Politici di Parigi. Faye, aggiunge Taguieff (ivi, p. 205), ha animato questo circolo dal 1971 al 1973. È il suo primo impegno: Faye è, all’improvviso, l’uomo nuovo, slegato da qualsiasi ramo della destra francese convenzionale. Non ha agganci negli ambienti vichysti e collaborazionisti, né in quello dell’OAS e neppure nella galassia cattolico-tradizionalista. Non è un nazionalista propriamente detto; è discepolo di Julien Freund, di Carl Schmitt (di cui parlava già con semplicità, concisione e rigore sulle colonne dei “Cahiers du Cercle Vilfredo Pareto”), di François Perroux ecc. Si potrebbe dire, se questo linguaggio avesse davvero un senso, che Faye è, all’interno dello stesso GRECE, il rappresentante di una “destra” al di là delle fazioni, di una “destra regale”, che posa su tutti gli avvenimenti uno sguardo sovrano e distaccato ma non sprovvisto di foga e di volontà “plastica”, che in qualche modo separa il grano dal loglio, il politico dall’impolitico. Quelli che lo hanno frequentato, o che sono stati suoi colleghi — come me —, sanno che canzonava senza posa le manchevolezze di queste destre parigine, le attitudini tronfie e le dispute di prestigio di quanti affermavano senza ridere e con molta arroganza poche idee miserelle — sovente nazisticherie di incommensurabile debolezza, ricalcate su quei fumetti americani in cui delle SS vestite di nero e grondanti decorazioni come alberi di Natale urlano, picchiano e stuprano —, semplicismi evidentemente svincolati da qualsiasi contesto storico ed incapaci di modellarsi sul reale. Sanno che Faye si burlava anche (non senza malizia) di coloro che, in questo ambiente dove si aggirano parecchi psicopatici, si costruivano un personaggio “sublime” (e sempre nerboruto, tipo superman) che non corrispondeva per nulla alla loro mediocrità reale, talvolta lampante. Di fronte alle nostalgie di qualsivoglia “ordine”, Faye amava definirsi realitario ed accettante e dire che solo questo atteggiamento avrebbe dato frutti a lungo termine.
In realtà, non appena lo sviluppo della ND come rete di lavoro metapolitico, oppure un impegno politico concreto in seno al RPR, al FN o a gruppi nazionalrivoluzionari esigevano rigore e resistenza, i mitomani superomisti si squagliavano come neve al sole, o si riciclavano in gruppuscoli inconsistenti in cui la mascherata e gli psicodrammi erano, senza soluzione di continuità, all’ordine del giorno.
Faye ha dato alla luce la propria opera in un ambiente che non era il suo, che non si riconosceva interamente — o anche per nulla — in ciò che egli scriveva. Faye dava l’impressione di gettare continuamente sassi nello stagno, nel tentativo di sbalordire e nella speranza, grazie a questa maieutica scapestrata, di far sbocciare una “destra” autenticamente nuova, che non si sarebbe più accontentata di camuffare sbrigativamente, con qualche riferimento colto, il suo vichysmo, il suo nazionalismo colonialista, il suo nazismo parigin-salottiero, le sue ambizioni puramente materiali o il suo militarismo caricaturale. Insomma, Faye incarnava da solo la “Nouvelle Droite” perché non era mai stato nessun’altra cosa. Quasi tutti quelli che lo hanno attorniato nel suo passaggio al GRECE e approfittato del suo carisma, della sua energia, del suo lavoro rapido e sempre pertinente, della sua intelligenza folgorante, lo hanno — in definitiva — considerato un estraneo, un novellino (se non l’ultimo arrivato) da tenere in disparte, lontano dai veri centri di comando del movimento, in cui pochi “anziani“ prendevano decisioni irrevocabili. Faye era di primo acchito libero dalla gogna delle destre: i suoi compagni — e soprattutto quelli che lo pagavano (molto male) — non lo erano. Ingenuo e preoccupato di portare avanti la maggior mole possibile di lavoro, Faye non si è mai preoccupato un granché di questi maligni intrighi dietro le quinte; per lui la cosa importante era che si pubblicassero dei testi, che libri e opuscoli venissero diffusi tra il pubblico. In fin dei conti, si accorgerà troppo tardi di quanto fosse dannosa questa opacità, che permetteva ogni manipolazione e ogni indugio, così da indebolire, svantaggiandolo, il movimento al quale ha regalato i migliori anni della sua vita: finirà vittima di questi cospiratori, senza aver potuto pazientemente costruire un apparato alternativo. Faye è stato veramente vittima della propria fiducia, della propria ingenuità e della propria non-appartenenza ad una rete ben precisa della “vecchia destra”, che, in fondo, non voleva rinnovarsi e cogliere appieno il mondo e la vita. Illusioni, fantasmi, amicizie ed intrighi parigini prevalevano continuamente sulla pertinenza ideologica del discorso, sul lavoro di allargamento e approfondimento del movimento.
Nel momento in cui la “Nouvelle Droite” si affaccia alla ribalta dopo la campagna stampa dell’estate 1979, Faye si offre volontario per effettuare non-stop un tour de France delle unità regionali del GRECE che sorgevano dappertutto spontaneamente. Grazie al suo impegno personale, alla sua presenza, al suo eloquio che sferzava le volontà, fa del GRECE un’autentica comunità in cui si ritrovano, fianco a fianco, “vecchi” (venuti da ogni parte della “destra”, esclusi i cattolici integralisti e moderati) e “nuovi”, sovente studenti, che afferrano e accettano istintivamente la novità del suo discorso, le cose essenziali che egli veicola. Faye, molto attento alle analisi sociologiche che indagano le mode, osservano i costumi, captano i fermenti di contestazione fin dalla loro nascita, diventa (del tutto naturalmente) l’idolo dei giovani anticonformisti della “destra” francese — a cui si aggiungono qualche sessantottino differenzialista e degli ex situazionisti — che rifiutano le convenzioni sociali classiche (come la religione), senza peraltro accettare le leziosaggini dell’ideologia implicita dei baba-cools del ’68, matrice del conformismo che subiamo oggi.
Se i lettori di Marcuse avevano scommesso su una sorta di epimeteismo morbido, di erotismo orfico come zoccolo di una contro-civiltà quasi paradisiaca, su una contestazione dolce e dimissionaria, su una negazione permanente di tutte le istituzioni che implicano un qualsivoglia tu devi, Faye, fondendo contestazione e affermazione, respingendo come vane, impolitiche e dimissionarie tutte le negazioni alla Marcuse, puntava su un prometeismo duro, su un erotismo goliardico che puntualmente liberi i suoi adepti, dispiegando una sana gioia, dalle aspre tensioni dell’azione continua, su un’affermazione permanente ed impavida di doveri e istituzioni nuove, ma da non considerarsi definitive. Marcuse e Faye contestano entrambi la società fossilizzata e le gerarchie vecchiotte degli anni ‘50 e ‘60, ma Marcuse tenta un’uscita definitiva dalla storia (che ha prodotto queste gerarchie stereotipate) mentre Faye vuole un ritorno all’effervescenza della storia, crede alla trama conflittuale e tragica della vita (come i suoi maestri Freund, Monnerot e Maffesoli). Marcuse è smobilitatore (credendo così di essere antitotalitario), Faye è ipermobilitatore (per sfuggire al totalitarismo morbido che soffoca le anime ed i popoli attraverso l’estensione illimitata del suo moralismo morigerante, così come il gerarchismo abbrutente delle convenzioni ante ‘68 soffocava, anch’esso, le spontaneità creative).
Questa visione contemporaneamente contestatrice e affermatrice sarà dunque veicolata di città in città nel corso di diversi anni, dal 1979 al 1984, spazio-tempo in cui il GRECE raggiunge il suo apogeo, sotto la direzione di Alain de Benoist, certamente, ma soprattutto grazie al carisma di Guillaume Faye. Questo marchia col suo sigillo la rivista “Eléments”, determinandone i temi e abbordandoli con una foga e un opportunismo mai più rivisti dopo l’uscita di Faye. Andatosene Faye e poi, al suo seguito, Vial e Mabire (che sono tuttavia uomini molto differenti da lui), “Eléments” comincia letteralmente ad andar male; la rivista perde il suo torsolo e diventa l’arena in cui si cimentano giovanissimi poligrafi, mediocri parafraste ed incorreggibili compilatori, falsi germanisti e falsi filosofi, falsi sinistroidi e falsi neofascisti, scarabocchiatori di effemeridi e scialbi esteti. E, soprattutto, qualche bel campione di faccia da schiaffi del seizième. Faye in effetti lanciava un buon numero di tematiche nuove, generalmente ignorate tra le fila della destra più stupida del mondo. Sull’iniziale eredità di Scienze Politiche e del circolo Pareto, Faye — che, al contrario di Alain de Benoist, ha un contatto molto facile con gli universitari — innesta del nuovo, introduce la propria interpretazione dell’agire comunicazionale di Habermas, delle tesi dei neo-conservatori americani e della sociologia antinarcisistica di Christopher Lash. In seguito, rompendo risolutamente con l’occidentalismo delle destre, Faye traccia, in “Eléments” n. 32, una critica della civiltà occidentale, allacciandosi o riallacciandosi all’antioccidentalismo dei tedeschi nazionalisti o conservatori dell’epoca di Weimar (Spengler, Niekisch, Sombart ecc.), alle tesi in etnologia biasimanti gli etnocidi compiuti ai margini della civiltà tecno-messianica dell’Occidente (Robert Jaulin), e al Manifeste différentialiste di Henri Lefèbvre (ex teorico del PCF ed ex allievo del surrealista André Breton).
L’occidentalismo, erede di una concezione stereotipata, bloccante, immobilista, umanitarista, ripetitiva, psittacista dei Lumi, è un fardello di cui bisogna liberarsi; è un freno all’agire comunicazionale (sognato da Habermas ma che Faye ed i suoi veri amici vorranno restituire nella loro logica comunitaria, identitaria e radicata); è una patologia generante false ed inoperose gerarchie, che una rotazione delle classi dirigenti dovrà abbattere; è, infine, secondo la formula geniale di Faye, un sistema per uccidere i popoli.
Ma se le critiche formulate dai sostenitori della Scuola di Francoforte e da Faye rifiutano il sistema creato dall’ideologia dei Lumi — perché questo sistema nega la Vita, cioè il nostro Lebenswelt (termine ripreso da Habermas, sulla scia di Simmel) — queste due scuole — la nuova sinistra, di cui la rivista newyorkese “Telos” costituisce la miglior tribuna; e la vera nuova destra, che Faye ha incarnato da solo, senza essere impegolato in nostalgismi incapacitanti — differiscono nel loro apprezzamento della ragione strumentale. Per la Scuola di Francoforte la ragione strumentale è la sorgente di tutti i mali: dal capitalismo manchesteriano all’autoritarismo dell’Obrigkeitsstaat, dal fascismo alla messa al bando della famosa Lebenswelt, dall’elettrofascismo (Jungk) alla distruzione dell’ambiente. Ma la ragione strumentale dà potenza, pensava Faye, e ci vuole potenza in politica per far muovere le cose, ivi compreso ripristinare la nostra Lebenswelt, le nostre radici e la spontaneità del nostro popolo. La differenza tra la nuova destra (cioè Faye) e la nuova sinistra (più o meno l’équipe di “Telos”) risiede interamente in questa questione della potenza, la cui ragione strumentale può essere uno strumento. Questa querelle è stata anche quella delle scienze sociali tedesche (cf. De Vienne à Francfort, la querelle allemande des sciences sociales, Ed. Complexe, Bruxelles, 1979): è la ragione strumentale, che pone tra parentesi i valori, non dà giudizi di valore e pratica la Wertfreiheit di Max Weber, financo l’etica della responsabilità, oppure è la ragione normativa, che insiste sui valori — ma unicamente i valori illuministi dell’Occidente moderno — e sviluppa così un’etica della convinzione, a dover avere il sopravvento? Faye non ha esattamente risposto alla domanda, nel quadro del dibattito che agitava il mondo intellettuale alla fine degli anni 70 e all’inizio degli anni 80, ma si sentiva perfettamente, nei suoi articoli e ne Il sistema per uccidere i popoli, che percepiva istintivamente lo iato, il vicolo cieco: che tanto la ragione strumentale, quando è manipolata da autorità politiche — che non condividono i nostri valori (quelle dello zoon politikon greco o dell’iperpoliticismo romano) né, soprattutto, le nostre tradizioni metafisiche e giuridiche — quanto la ragione normativa, quando ci impone norme astratte o estranee alla nostra storia, sono obliteranti ed alienanti. Né la ragione strumentale né la ragione normativa (sarebbe più esatto parlare di ragione assiologica, nel senso in cui la norma, come la definisce Carl Schmitt, è sempre un’astrazione piazzata sulla vita, mentre il valore, per Weber e Freund, è una positività immutabile che può cambiare di forma ma mai di fondo, che può fare irruzione nel reale oppure ritirarsi, mettersi in fase di latenza, ed è appannaggio di precisi popoli e culture) sono obliteranti o alienanti se il popolo vive i propri valori e non è sottomesso a norme astratte che, deliberatamente, sradicano tutto ciò che è spontaneo, correggono ciò che pare loro irrazionale e cancellano l’eredità della storia. Faye non ha avuto il tempo di agganciarsi ai dibattiti sui lavori di Rawls (sulla giustizia sociale), non ha avuto il tempo di seguire il dibattito dei comunitari americani, che hanno ritrovato i valori sociologici ed intendono riattivarli. E, soprattutto, non ha seguito la traccia della grande avventura scaturita dagli anni 80, la riscoperta dell’opera di Carl Schmitt — in Germania, Italia e Stati Uniti con la Francia grosso modo rimasta fuori da questa onda lunga che attraversa l’intero pianeta. Si esce dal dilemma tra ragione strumentale e ragione normativa solamente ritornando alla storia, che offre valori precisi a popoli precisi, valori che possono essere forse soggettivi, ma che sono anche oggettivi, poiché sono i soli capaci di strutturare dei comportamenti coerenti e duraturi nella flessibilità, capaci di generare in seno ad un popolo ciò che Arnold Gehlen chiamava le istituzioni. Un popolo che aderisce ai propri valori e li mette in pratica, obbedisce a leggi che sono oggettive per lui solo, ma che sono la sola oggettività pratica nella sfera del politico; se obbedisce a norme a lui esterne, imposte da potenze esteriori e/o dominanti, la ragione normativa gli apparirà, consciamente o inconsciamente, alienante e la ragione strumentale insopportabile. In un simile quadro, se ha dimenticato i propri valori, il popolo muore perché non può più agire secondo le proprie leggi interiori. Il sistema lo ha ucciso.
Indubbia e determinante sull’evoluzione delle idee di Guillaume Faye è stata l’influenza di Henri Lefèbvre, uno dei principali teorici del PCF (Partito Comunista Francese) e autore di numerosi testi fondamentali ad uso dei militanti di questo partito fortemente strutturato e combattivo. Ho avuto personalmente il piacere di incontrare questo filosofo ex-comunista francese in due riprese in compagnia di Guillaume Faye nella sala del celebre ristorante parigino “La Closerie des Lilas” che Lefèbvre amava frequentare perché era stato luogo di ritrovo del surrealismo francese ai tempi di André Breton. A Lefèbvre piaceva ricordare le risse omeriche, che avevano rallegrato questo ristorante, tra i surrealisti ed i loro avversari. Prima di passare al marxismo, Lefèbvre era stato surrealista. Le conversazioni avute con questo filosofo di eccezionale distinzione, raffinato ed aristocratico nelle parole e nei modi, sono state proficue ed hanno contribuito ad arricchire in particolar modo il numero di “Nouvelle école” su Heidegger che stavamo preparando all’epoca. Tre opere più recenti di Lefèbvre, post-marxiste, hanno attirato la nostra attenzione: Position: contre les technocrates. En finir avec l’humanité-fiction (Gonthier, Parigi, 1967); Le manifeste différentialiste (Gallimard, Parigi, 1970); De l’Etat. 1. L’Etat dans le monde moderne (UGE, Parigi, 1976).
In Position (op. cit.), Lefèbvre protestava contro i progetti di esplorazione spaziale e lunare poiché divertivano l’uomo “dell’umile superficie del globo”, facendogli perdere il senso della Terra, caro a Nietzsche. Era anche il risultato, per Lefèbvre, di una ideologia che aveva perduto qualsiasi potenzialità pratica, qualsiasi facoltà di forgiare un progetto concreto per rimediare ai problemi che danneggiano la vita reale degli uomini e delle città. Questa ideologia, che è quella dell’umanesimo liberal-borghese, non è più che una mescolanza di filantropia, di cultura e di citazioni; la filosofia si ritualizza, sanziona un immenso imbroglio. Per Lefèbvre questo impastoiamento nella pura fraseologia non deve condurci a rifiutare l’uomo, come fanno gli strutturalisti che gravitano intorno a Foucault, che gettano un sospetto distruttore, decostruttivista su tutti i progetti e le volontà politiche (più tardi Lefèbvre sarà meno severo nei riguardi di Foucault). In tale contesto non è più possibile alcuno slancio rivoluzionario, né altro: movimento, dialettica, dinamica e divenire vengono semplicemente negati. Lo strutturalismo anti-storicista e foucaultiano costituisce l’apogeo del rigetto di questo formidabile filone che ci ha lasciato Eraclito e inaugura, dice Lefèbvre, un nuovo eleatismo: il vecchio eleatismo contestava il movimento sensibile, il nuovo contesta il movimento storico. Per Lefèbvre la filosofia parmenidea è quella dell’immobiltà. Per Faye il neo-parmenidismo del sistema, liberale, borghese e plutocratico, è la filosofia del discorso liberal-umanista ripetuto all’infinito come un catechismo secco, senza meraviglioso. Per Lefèbvre la filosofia eraclitiana è la filosofia del movimento. Per Faye — che ritrova là qualche eco spengleriana propria al recupero neo-destrista (attraverso Locchi e de Benoist) della Rivoluzione Conservatrice di Weimar — l’eraclitismo contemporaneo deve essere culto gioioso della mobilità innovante. Per l’ex-marxista ed ex-surrealista come per il neo-destrista assoluto, quale fu Faye, gli esseri, le stabilità, le strutture non sono che tracce del cammino del Divenire. Non ci sono per loro strutture fisse e definitive: il movimento reale del mondo e del politico è un movimento senza buon fine di strutturazione e destrutturazione. Il mondo non saprebbe star rinchiuso in un sistema che non ha altra preoccupazione che quella di preservarsi. A questo strutturalismo che può giustificare i sistemi perché esclude gli antropi di carne e di volontà, bisogna opporre l’anti-sistema, addirittura la Vita. Per Lefèbvre (così come per Faye) questo ricorso alla Vita non è passatismo o arcaismo: non si combatte il sistema agitando immagini abbellite di un passato del tutto ipotetico, ma investendo massicciamente della tecnica nella quotidianità finendola con qualsiasi filosofia puramente speculativa, con l’umanità-fiction. L’importante nell’uomo è l’opera, è operare. L’uomo è autentico solo se è operante e partecipa così al divenire. I non-operanti sono coloro che rifuggono la tecnica (sola leva disponibile), che rifiutano di marchiare il quotidiano con il sigillo della tecnica, che cercano di sfuggire nell’arcaico e nel primitivo, nella marginalità (Marcuse) o nelle nevrosi (psicoanalisi!). Apologia della tecnica e rifiuto delle nostalgie arcaicizzanti sono bellamente i due segni del neo-destrismo autentico, cioè del neo-destrismo fayano. Escono direttamente da una attenta lettura dei lavori di Henri Lefèbvre.
Ne Le manifeste différentialiste troviamo altri paralleli tra il post-marxismo di Lefèbvre ed il neo-destrismo di Faye, e il primo ha indubbiamente fecondato il secondo: la critica dei processi di omogeneizzazione ed una perorazione a favore di potenze differenziali (che devono abbandonare le loro posizioni difensive per passare all’offensiva). L’omogeneizzazione repressivo-oppressiva è dominante, vincente, ma non viene definitivamente a capo di resistenze particolaristiche: queste impongono allora malgrado tutto una sorta di policentrismo, indotto dalla lotta planetaria per rinviare e che si tratta di consolidare. Se si pone fine a questa lotta, se il potere repressivo ed oppressore vince definitivamente, sarà la fine dell’analisi, il fallimento della azione, la fine della scoperta e della creazione.
Dalla sua lettura di L’ Etat dans le monde moderne, Faye sembra aver tratto alcune altre idee-chiave, in particolare quella della mistificazione totale concomitante con l’omogeneizzazione planetaria, in cui ora viene esaltato lo Stato (da Hobbes allo stalinismo), ora lo si disconosce (da Cartesio alle illusioni del puro sapere), in cui il sesso, l’individuo, l’élite, la struttura (strutturalisti stereotipati), l’informazione sovrabbondante servono di volta in volta a mistificare il pubblico; in seguito l’idea che lo Stato non debba essere concepito come un completamento mortale, come una fine, ma ben piuttosto come un teatro ed un campo di battaglia. Lo Stato finirà ma ciò non significherà tuttavia la fine (del politico). Infine, di quest’opera Faye ha acquisito l’arringa di Lefèbvre a favore del differenziale, cioè a favore di ciò che sfugge all’identità ripetitiva, a favore di ciò che produce invece di riprodurre, a favore di ciò che lotta contro l’entropia e lo spazio della morte, per la conquista di un’identità collettiva differenziale.
Questa lettura e questi incontri di Faye con Henri Lefèbvre sono interessanti a diverso titolo: possiamo dire retrospettivamente che una corrente sia indubbiamente passata tra i due uomini, certamente perché Lefèbvre era un ex-surrealista, capace di comprendere questa mescolanza instabile, ribollente e turbolenta rappresentata da Faye, in cui si mescolavano giustamente anarchismo critico diretto contro lo Stato abitudinario e ricorso all’autorità politica (carismatica) che rompe con il vigore delle sue decisioni la routine incapace di far fronte all’imprevisto, alla guerra o alla catastrofe. Se definiamo il percorso di Faye estetizzante (certamente una scorciatoia), la sua estetica non può essere che questa estetica del terrore definita da Karl Heinz Bohrer in cui la fusione di intuizionismo (in Faye bergsoniano) e di decisionismo (schmittiano) fa apparire la subitaneità, l’avvenimento imprevisto ed improvvisato — ciò che Faye chiamava, nel solco di una certa scuola schmittiana, l’Ernstfall — come una manifestazione contemporaneamente vitale e catastrofica, essendo la vita e la storia un flusso ininterrotto di catastrofi, escludente ogni tranquillità. La lotta continua reclamata da Lefèbvre, la rivendicazione perpetua del differenziale per cui uomini e cose non restano fissi ed eleatici, il tempo autentico ma breve della subitaneità, l’imprevisto o l’insolito rivendicati dai surrealisti e dai loro epigoni, lo choc dello stato d’urgenza considerato da Schmitt e Freund come essenziali, sono altrettanti concetti o visioni che confluiscono in questa sintesi fayana. La rendono inseparabile dai corpus dottrinali agitati a Parigi negli anni 60 e 70 e non permettono di arrivare ad una sorta di consustanzialità con il fascismo o l’estremodestrismo fantasmagorici che sono stati prestati alla sua nuova destra, dal momento in cui, spaventato da tante audacie filosofiche a destra, a sinistra e altrove dappertutto, il sistema ha cominciato ad esigere un tornare indietro, una riduzione ad un moralismo minimale, compito infamante cominciato da dei Bernard-Henry Lévy, dei Guy Konopnicki, dei Luc Ferry e degli Alain Renaut, preparanti così le piattitudini del nostro political correctness.
Resta da spiegare il nietzscheanesimo di Faye e riposizionarlo alla men peggio — per quanto ciò sia possibile — nel contesto del nietzscheanesimo francese degli anni 60/80. Che cosa distingue il suo nietzscheanesimo implicito (e talvolta esplicito) dal nietzscheanesimo professato altrove, all’Università francese, tra i filosofi indipendenti (persino marginali) o fra gli altri protagonisti della ND?
• Se il nietzscheanesimo dell’università era complesso, troppo complesso per essere maneggiato all’interno di associazioni di tipo metapolitico come il GRECE;
• se gli arabeschi, i meandri, i rizomi, le distribuzioni, le trasversalità, le multilinearità e i ritornelli di un filosofo nietzschano originale e fecondo come Gilles Deleuze, per esempio, dispiegavano un vocabolario tanto originale quanto sorprendente, che restava però largamente incompreso al di fuori delle facoltà di filosofia nel momento di gloria della ND (tra i non filosofi avrebbero incontrato solo incomprensione, anche all’università; in Italia Francesco Ingravalle ha avuto il merito di delineare un’eccellente vista d’insieme degli approcci nietzscheani, mettendo in evidenza l’apporto di Deleuze; cf. F. Ingravalle, Nietzsche illuminista o illuminato? Guida alla lettura di Nietzsche attraverso Nietzsche, Ed. di Ar, Padova, 1981);
• se i filosofi più a margine, meno accademici e solitari hanno lavorato a fondo sulle tematiche nietzscheane più circostanziali e nettamente meno politiche e meno metapoliticizzabili;
• se i frammenti, ora sparsi, ora concentrati, di eredità dell’estrema destra, trasposti spontaneamente nella metapolitica maldestra dei più modesti militanti di base degli inizi del GRECE, concepivano un nietzschanesimo molto ieratico, glaciale e fisso, prendendo ingenuamente alla lettera il discorso del superuomo, e, soprattutto i suoi travestimenti attraverso la propaganda cinematografica anglosassone delle due guerre mondiali, in cui si mescolano luoghi comuni come l’Hun, la bestia bionda, la follia caricaturale di professori di genetica dalla smorfia nervosa e dai grossi occhiali e, infine, la boria attribuita agli ufficiali dei corpi franchi o delle truppe d’assalto;
• se il superomismo di Giorgio Locchi, in quanto nietzscheanesimo solidamente suffragato nei discorsi del GRECE, insisteva sul superamento degli avatar filosofici e scientifici dell’egualitarismo passivo e livellatore scaturito dal cristianesimo e trasformati in scienza nel solco del positivismo prima e del marxismo poi;
• se le tesi di Pierre Chassard sull’antiprovvidenzialismo di Nietzsche, fatte proprie dal GRECE, mal cogliendo un’interpretazione originale del filosofo di Sils-Maria agli inizi degli anni 70, insistevano sull’impossibilità finale di creare un mondo compiuto, chiuso, senza più né vicissitudini né tragedia né effervescenza né conflittualità;
ebbene, il nietzscheanesimo personale di Faye si inscriverebbe piuttosto in questo spazio dai contorni sfocati, tra il serio ed il faceto, messo in evidenza da Alexis Philonenko, nel suo approccio all’opera di Nietzsche (A. Philonenko, Nietzsche, Le Rire et le Tragique, LGF, 1995).
Per Faye effettivamente la trama del mondo è fondamentalmente tragica, e resterà tale a scapito dei pii desideri espressi da cristiani, post-cristiani, giuridico-naturalisti, ecc.; seguendo il pensiero di Jules Monnerot, che ha creduto fermamente all’eterotelia — cioè che si raggiunge sempre un obiettivo differente da quello che ci si era posto nei propri sogni e nei propri progetti — Faye scrive e afferma senza posa che gli sforzi politici, le costruzioni istituzionali, gli sbarramenti eretti maldestramente dalle censure che vogliono evitare qualsiasi ridistribuzione delle carte, finiranno sempre per essere spazzati via, ma, prima di questa meritata estinzione e di questa necessaria pulizia, le agitazioni, le collere, le esortazioni, le ammonizioni di coloro che vogliono che le stesse regole restino sempre in vigore, per i secoli dei secoli, devono suscitare il riso di tutti i realitari impertinenti che affermano e accettano il tragico, la finitezza di tutte le cose. In questo senso per Faye «il riso è la potenza nuda, autenticamente proteiforme», come lo definisce Philonenko, che aggiunge che in Also spracht Zarathustra il riso è anche «la chiave che apre tutte le serrature», precisamente perché permette di saltare tutti gli ostacoli che, in fondo, non sono ostacoli, di guardare attraverso le fessure o al di là di masse in apparenza monolitiche. Nietzsche concepisce il riso, non come una sostanza, ma come una funzione metacritica che rende possibile la vita (e la libera dai pesi e dagli anacronismi) e, con esse, aggiunge Philonenko, qualsivoglia autentica esistenza, nel senso in cui l’autenticità, qui, è sinonimo di pienezza e di folgorazione innovativa, mentre qualsiasi routine, per Faye persino qualsiasi tradizione, quando si cristallizza, è inautentica, priva di interesse. Da qui deriva il fascino che esercitavano su Faye le riflessioni post-nietzscheane di Heidegger sul triste mondo quotidiano della pubblica opinione e del si impersonale, allorquando gli scrittori francesi che hanno, ciascuno a modo suo, cantato le vie regali, non hanno per nulla influenzato le riflessioni del solo autentico pensatore originale della ND.
Nietzsche e, inconsciamente al suo seguito, Faye immaginavano un riso che, facendo sprofondare le colonne della civiltà (quella rigida, disincantata, che ci ha legati e ci impone l’Aufklärung, sempre più sovente con metodi polizieschi), avrebbe realizzato il superuomo, cioè il superamento della condizione umana troppo umana, imprigionata nelle trappole della legalità senza nessuna legittimità, nelle cellule dorate di una civiltà di abbondanza materiale e di lacune spirituali. È in questa critica della civiltà, non più veicolata dall’eros idilliaco e neo-pastorale del marcuse-rousseauismo, ma dal riso e dalla monelleria, che bisogna vedere un parallelo con una certa rivoluzione conservatrice tedesca, che ricusa questa civiltà in nome dell’esperienza contemporaneamente traumatizzante ed esaltante dei soldati della prima guerra mondiale o in nome di una fede orientale, asiatica o russo-ortodossa, in apparenza modernizzata sotto gli orpelli del bolscevismo. La super-umanità nietszcheo-fayana non è dunque una umanità impavida di gendarmi dai tratti rigidi, muscolosi e ieratici (salvo, notevole eccezione, certe vignette del suo fumetto dalle tematiche contestate, intitolato “Avant-Guerre”), non — conformemente al necessario contesto spazio-temporale —, un duplicato anacronistico del nazionalismo militaristico dei fratelli Jünger o di Schauwecker, non un fideismo tradizionalista tinto di orientalismo, bensì una superumanità spinta da una banda di gioiosi monelli creativi, impertinenti, fuori dalla norma. I portatori di civiltà, che hanno dimenticato il riso o lo hanno soffocato in loro, erigono idoli di carta, codici morali, convenzioni del tutto cerebrali, che sono giustamente quelle che obliterano e respingono questa Lebenswelt, questa evidenza immediata che solo il riso è capace di afferrare, di captare, di aprirne tutte le serrature. Questo impegno per salvare la Lebenswelt è il leitmotiv che permette di comprendere gli infatuamenti simultanei di Faye per Heidegger, Habermas, Monnerot, Freund, Schmitt, Jünger (quello de L’Operaio), Simmel e la sua sintesi personale tra tutti questi filosofi, politologi e sociologi, in apparenza molto diversi tra loro. Più tardi Michel Maffesoli diventerà indubbiamente l’universitario che costruirà un corpus forte vicino a questa visione fayana — folgorante, dionisiaca ed effervescente — a livello di una filosofia e di una sociologia pienamente riconosciute dall’università, in ambito francese come in ambito internazionale. Ecco ciò che bisognava dire, mi sembra, sul nietzscheanesimo dionisiaco di Faye, che ha segnato così profondamente la ND con il suo sigillo. Faye è in effetti il pensatore che avrebbe potuto, se avesse elaborato e rielaborato le proprie intuizioni secondo i criteri del percorso accademico, diventare un filosofo tra Freund e Maffesoli, cioè un filosofo che tiene conto degli imperativi inevitabili del politico ma senza assolutizzare questi imperativi, lasciando sempre le porte ampiamente aperte alle manifestazioni della vita (della Lebenswelt). Se Freund, fedele in ciò a Carl Schmitt, non perde troppo tempo ad appesantirsi su formicolii, eruzioni, infatuazioni che potrebbero mille e una volta creare il pretesto ad un occasionalismo, Maffesoli va talvolta troppo lontano, ci sembra, quando sopravvaluta fenomeni di periferia, come le tribù metropolitane, pur annunciando una sorta di fine del politico nel dionisiaco. Faye, che ha abbandonato la sfera seria del politico, avrebbe potuto costituire questa giunzione tra Freund e Maffesoli (che fu discepolo del politologo alsaziano), nella misura in cui, per lui, il politico non deve intervenire che in caso di Ernstfall (di situazione pericolosa, eccezionale), dileguandosi non appena svanisce il pericolo. In ciò, «il politico va e viene tra imperium ed anarchia», come sottolineato da Christiane Pigacé, anch’essa discepola di Freund, nel corso della prima Université d’été della FACE nel luglio 1993.
Questo nietzscheanesimo tra il serio ed il faceto, scommessa per la potenza nuda e la funzione metacritica, era peraltro difficile da comprendere — non tanto tra i giovani militanti del GRECE, affascinati da questa foga, quanto piuttosto tra i santoni di questo movimento, tra gli alti vertici, dove non brillava alcun tipo di sole, dove non regnava nessun calore, ma un umore bisbetico sputava in continuazione miasmi tanto malsani quanto indefinibili in un’atmosfera già carica di volute nauseabonde di nicotina, in cui un aspetto sempre sconfitto, un broncio eruttante senza soluzione di continuità l’insulto gratuito, rivelava, in effetti, a chi era abbastanza lucido per poterlo vedere, una parodia fondamentale che Nietzsche avrebbe copiosamente canzonato. Le piccole vanità di un certo guru non tolleravano minimamente lo sviluppo di una metacritica centrata sul «folle riso liberatorio», che comincia sempre con una sana capacità di autoderisione. Quanto a Faye, non esitava mai a mettersi in mostra, a divertirsi delle proprie immagini, dei propri fantasmi, gusti, delle sue proprie frasi che spingeva all’assurdo per essere sicuro che non si ingarbugliassero mai in una impasse intellettuale. In effetti, per rimettersi in questione bisogna essere capaci di rimuginare fino all’assurdo ogni idea sviluppata, essere capaci di accorgersi ad ogni istante del carattere derisorio delle proprie vanità o dei propri fantasmi, del carattere ridicolo dei piccoli camuffamenti che si mettono in atto nella folle speranza di piacere un giorno alla platea, di avere una immagine irreprensibile tra i media del sistema per uccidere i popoli, la qual cosa indica finalmente che non ci si preoccupa minimamente di questi popoli, a scapito dei discorsi tenuti per far colpo sulla platea. Questo esercizio di autoderisione non è mai stato possibile al vertice del GRECE, che pretendeva evidentemente di essere non il GRECE, ma soltanto un posto base fortuito e scollegato da una vaga strategia personale di entratura tra i media e di partecipazione ai dibattiti (?) della Parigi-che-conta. Ragion per cui la macchina, posta in essere da qualche compilatore che allineava citazioni e referenze nella sola speranza di farsi valere, ha finito, da qualche parte, per girare a vuoto.
Infine, questo nietzscheanesimo del riso resta alla base del processo di avanzata del Faye post-grecista: dopo il lancio del giornale “J’ai tout compris” (1987-88) — che mescolava ironia graffiante, satira caustica, messaggio politico e penna sapiente — fino alle trasmissioni di Skyrock, con le enooooormi burle, o, ancora, le buffissime inchieste de l’“Echo des Savannes” o anche di “Paris-Match”, in cui abbiamo visto Faye nel ruolo del “Professor Kervous”, amico di un Bill Clinton di fresca nomina alla Casa Bianca, un Kervous dal look sessantottino affiancato dalla brillante segretaria britannica “Mary Patch” (!!), che si presenta da donne e uomini politici francesi per domandare loro, a nome del “Presidente Bill Clinton”, se sono pronti a porre la loro candidatura a “Segretario di Stato agli affari europei” nella nuova “amministrazione” americana... Ma questa pratica della “teoria metacritico-metapolitica” della ND fayana è un’altra storia, che non ha esattamente posto in questa introduzione.
II.
Ma perché questo Guillaume Faye, il cui carisma era innegabile, è stato cacciato dal gruppo a cui aveva dato un’autentica spina dorsale? Emblematico, il suo allontanamento prova che la logica interna del movimento GRECE è stata e resta una logica di esautorazione. Nel corso della sua storia, questo movimento ha escluso più quadri di quanti non ne abbia reclutati! Spiriti paranoici ne deducono che questa strategia di esclusioni successive è stata applicata su richiesta, per impedire alla Francia di sviluppare un’ideologia radicalmente critica nei riguardi degli anacronismi repubblicani, illuministi, giuridici e amministrativi che portano questo paese all’inaridimento intellettuale e alla pietrificazione istituzionale, di modo che nessuna corrente di opinione sufficientemente importante reclami riforme profonde o articoli le condizioni per una seconda rivoluzione francese che spazzerebbe la borghesia rivoluzionaria istituzionalizzata, i suoi club di ispirazione illuminista ed i suoi funzionari onnipotenti, come i prefetti che governano 95 dipartimenti senza essere eletti, in flagrante contraddizione coi principi democratici dell’Unione Europea! La tesi del su richiesta viene evocata dal professore messicano Santiago Ballesteros Walsh, senza che io possa avallarne la dimostrazione... Effettivamente nulla può direttamente dimostrare la tesi di Ballesteros Walsh, ma questo non deve impedirci di constatare che in quasi trent’anni di esistenza la ND parigina non ha proposto nessuna riforma coerente delle istituzioni francesi, non ha approfondito il regionalismo, che sarebbe potuto servire da leva ad una contestazione globale del sistema giacobino, direttamente ispirato dai Lumi, né alcun progetto di riforma economica, sulla base del partecipazionismo gollista, delle tesi di François Perroux o degli eterodossi del pensiero economico. Questa omissione, questo rifiuto persistente a non abbordare tali soggetti, sono perlomeno bizzarri, financo molto sospetti. Faye non ha mai smesso di reclamare l’inclusione di simili passi nel corpus della ND. È questa la reale ragione del suo allontanamento? Come di quello di tutti gli altri esclusi?
Nelle discussioni tra ex membri del GRECE vengono evocate sovente altre due bizzarre strategie: quella della bollatura e quella della denigrazione.
La strategia della bollatura consiste nell’attrarre intellettuali nel solco della ND affinché ne siano per sempre marchiati e siano così impediti a proseguire le loro ricerche. La strategia della denigrazione consiste nello spingere i militanti gli uni contro gli altri, a descriverli come idioti o come pazzi al fine di contrastare preventivamente qualsiasi collaborazione autonoma tra di loro, al di là di qualsiasi controllo della centrale. Così, per esempio, a tale editore indipendente verrà detto che “Steuckers (o Faye o Battarra ecc.) è un pazzo pericoloso, addirittura un terrorista nazi-trotskista e nazionalrivoluzionario, degno erede della narodnaïa volia russa (d’altro canto, nevvero, il suo giornale si chiama “Vouloir”...)”, affinché non accetti manoscritti di questa sottospecie di Netchaïev di Steuckers, ma, di questo stesso buon editore, venti minuti dopo, la stessa persona dirà a Steuckers, “è un dolce cretino ingarbugliato in tutte le sette ruraliste völkisch più strampalate”, questo per non fargli presentare alcun manoscritto...
Mi sembra utile, dietro richiesta di alcuni esclusi notori e di alcuni ex quadri del GRECE, piombati nell’amarezza dopo il fallimento del loro riformismo costruttivo all’interno del movimento in cui militavano, di abbozzare un quadro riepilogativo di questa successione ininterrotta di evizioni, insistendo in modo particolare su quella di Faye.
Vivendo e lavorando molto vicino al centro, anche se non conosceva gli autentici comandatari dell’impresa, così come nessun altro membro o altro quadro, Faye non è stato sufficientemente attento alla fragilità della propria posizione; è stato ingenuo e fiducioso, era estraneo a questo ambiente, veniva da fuori. Non è mai stato integrato dai pretesi iniziati, è stato sempre considerato come un limone da spremere. L’indice più significativo di questa non-appartenenza al nocciolo di base è la mediocrità del salario percepito da Faye. Continuo a non capire come abbia potuto avere la debolezza di accontentarsi di una tale situazione. E di aver commesso due errori:
a. Aver avuto troppa fiducia nel proprio carisma, aver sovente lavorato troppo velocemente, per folgorazioni, individualmente, non corredando sempre i testi con adeguate referenze per dar loro peso. L’ideale sarebbe stato un Faye spalleggiato da un’équipe, che avrebbe potuto esplorare per lui l’universo delle biblioteche, trasmettere bibliografie, riassumere libri, avrebbe potuto partecipare in sua vece a conferenze universitarie e politiche ecc. Faye non si è circondato di persone capaci di sostituirlo in certi lavori. A medio termine, questa sarà la sua perdita;
b. Di poi, Faye non si è dotato di uno strumento personale ed autonomo, per esempio un circolo o una rivista, che gli avrebbe potuto fornire una via d’uscita, per far ripartire la sua azione riacciuffando il suo pubblico, reclutato nell’ambito del GRECE. Faye non ha organizzato la sua rete di relazioni, né intrattenuto rapporti stabili con le personalità che è venuto incontrando nel corso delle sue numerose peripezie. Dopo la sua espulsione Faye si è ritrovato da solo, senza schedario, senza tribuna, senza risorse. La sua ricerca intellettuale ha dovuto fermarsi. L’ABC del quadro insegna che bisogna, in qualsiasi circostanza, prepararsi una via d’uscita, cadere sempre in piedi in caso di espulsione, reinnescare la dinamica in completa autonomia, se occorre anche contro i propri ex compagni.
Queste riflessioni su Faye ci obbligano a ritracciare la cronologia del suo itinerario grecista. Questo itinerario, scrive Taguieff (op. cit.), comincia nell’ambito del Cercle Vilfredo Pareto, dominato dalla personalità di Yvan Blot (alias Michel Norey), oggi deputato europeo per il FN francese. Faye, che lavorava allora per l’industria automobilistica, vi apprende le tecniche di oratore, spinto da un ex militante della destra radicale francese, che aveva abbandonato qualsivoglia militanza. Incontestabilmente Faye è un buon allievo. Cosa che potei constatare quando lo incontrai per la prima volta a Bruxelles nel 1976, in una sala dell’Hotel Ramada, Chaussée de Charleroi, quando pronunziò un focoso discorso su “l’Europa, colonia degli Stati Uniti”. Velocemente, sulla scia di Giorgio Locchi che aveva composto un numero di “Nouvelle école” per stigmatizzare il colpo di mano americano sull’Europa e per mettere in evidenza le differenze radicali tra il mentale europeo ed il mentale americano, Faye si innesta su questo antiamericanesimo solidamente suffragato dal filosofo italiano e rompe definitivamente con tutte le tradizioni occidentaliste della destra francese, ivi comprese quelle di certi superstiti di Europe Action, il movimento attivista degli anni 60, in cui si era fatto le ossa un buon numero di quadri del GRECE delle origini.
Nel 1977-78 avviene una prima rottura all’interno della ND, ancora poco conosciuta dal grande pubblico. Da una parte Yvan Blot, Jean-Yves Le Gallou ed alcuni altri fondano il “Club de l’Horloge”, la cui strategia sarà quella di fare investimenti nell’ambiente politico, professionale (essenzialmente patronati) e delle Grandes Ecoles di Parigi (ENA ecc.), mentre Alain de Benoist scommette su una lotta di idee, sulla stampa ed i media in generale. Il Club dell’Horloge opera scelte liberali o nazional-liberali. Alain de Benoist ha il merito di restare al di qua di questo cammino verso la rispettabilità, che peraltro annuncia il ritorno del liberalismo nei dibattiti degli anni 80, ma non propone nessuna alternativa coerente e strutturata al giscardismo e agli elementi di social-democrazia che compenetrano la società francese, dopo la scomparsa di De Gaulle. Faye rifiuta la logica liberale, in nome delle argomentazioni da lui difese sulle colonne dei “Cahiers du Cercle Vilfredo Pareto”. Pensa che le sue idee stataliste, autarchiche e regali non possano essere difese dalla tribuna del Club de l’Horloge e resta con de Benoist nel GRECE. Le sue motivazioni sono dunque puramente ideologiche. La sua scelta non è dettata da interessi materiali o da opportunità professionali.
Nel GRECE entra allora in scena Philippe Marceau e lo ristruttura con una temibile efficacia. Grazie alla sua dedizione e alla sua generosità, Faye trova un inquadramento solido, su misura. Marceau imbriglia il focoso cavallo Faye, cura che sia pagato convenientemente. Faye darà il meglio di sé tra il 1978 ed il 1982, periodo in cui beneficerà della rigorosa organizzazione imposta da Marceau. Inoltre il GRECE in questo periodo segna diversi punti: fonda le edizioni Copernic nel 1978 (che falliranno pietosamente nel 1981), si inserisce nella redazione del “Figaro Magazine” di Louis Pauwels. Faye ne è sedotto, insieme a molti altri, fra cui annovero me stesso. Pensa che l’avvenire sia nella metapolitica. In quel momento della storia del movimento, lo crede anche Marceau.
Alla fine del 1981, a dispetto del discorso anti-americano ed anti-liberale ufficiale, Alain de Benoist sviluppa una strategia personale, cercando, senza dubbio, di riprendere il Club de l’Horloge in velocità. Sarà l’avventura di “Alternative libérale”, ambizioso progetto di organizzare una gigantesca conferenza a Parigi, con l’appoggio del “Figaro Magazine”. Questa conferenza avrebbe dovuto riunire tutti i teorici francesi del liberalismo politico ed economico, fra cui Raymond Aron e gli omologhi e mentori americani, tra cui i Chicago Boys ecc. Al centro di questo areopago avrebbe dovuto inserirsi Alain de Benoist himself. Allarmati da qualche cosciente giornalista, numerosi partecipanti previdenti rifiutano di prendere la parola se il nazi (?) de Benoist sale in cattedra. Le spese sopportate sono tali che gli organizzatori e i comandatari non possono più far marcia indietro: Alain de Benoist viene espulso. La conferenza ha luogo. Il “Figaro Magazine” ne fa l’eco. Ma “Alternative libérale” cessa di esistere all’indomani della manifestazione. Questa piccola avventura la dice lunga sulla sincerità del leader della ND: per diventare importante si sarebbe prestato a liquidare il suo anti-liberalismo, il suo anti-americanesimo, a mettere in un canto il suo europeismo o le sue posizioni neogolliste, la sua germanofilia ed il suo culto della rivoluzione conservatrice. Io ricordo un Faye molto scettico e dubbioso all’epoca... Mi sembrava scombussolato, lui, l’onest’uomo, che aveva sempre seguito le proprie idee piuttosto che le opportunità politiche o mediatiche... Scombussolato di constatare che altri erano disposti a dire oggi o domani tutto il contrario di ciò che avevano sempre affermato, per una poltroncina, una opportunità oppure per seguire una moda (parigina).
Nel gennaio 1982, esce un numero di “Eléments” intitolato “Mourir pour Gdansk?”. Alain de Benoist vi rifiuta la logica occidentale (mentre era pronto a sacrificarvisi un mesetto prima!!!), si oppone ai massimalisti della NATO che si inquietano della salita al potere di Jaruzelski in Polonia, distrugge il mito del nemico sovietico, afferma che il sistema sovietico — che peraltro non avalla — è meno pericoloso per la cultura europea delle mode e dei film americani, conduce in effetti una guerra preventiva contro il reaganismo che è appena arrivato alla Casa Bianca. Questo antioccidentalismo, ben costruito e coraggioso, provoca la collera di Raymond Bourgine, direttore di “Valeurs actuelles” e di “Spectacle du monde”, un settimanale ed un mensile a cui Alain de Benoist ha collaborato quando era alle prime armi e da cui è derivata la maggior parte dei capitoli di Vu de droite. Alain de Benoist viene cacciato dalla redazione. È il primo grosso fallimento del GRECE. Ma Alain de Benoist mantiene la sua rubrica delle idee su “Figaro Magazine” (che comunque perderà qualche mese più tardi).
Philippe Marceau vede che la situazione si degrada. Ottimo uomo d’affari, constata che i suoi investimenti nel GRECE non hanno dato i frutti promessi; il suo sforzo finanziario è stato troppo importante per i magri risultati ottenuti. Stima verosimilmente che i fallimenti successivi che il movimento ha appena incassato, siano di cattivo augurio (fallimento di Copernic, fiasco di “Alternative libérale”, allontanamento dagli organi di stampa di Bourgine, posizione barcollante del GRECE al “Figaro Magazine”, scarsa attenzione dei media, accanimento degli avversari ecc.). Marceau si rende conto di non aver cancellato le tare del GRECE (decisionisti in retroscena, cattiva gestione dei fondi, fantasie e strategie personali, incapacità di seguire una linea precisa, variazioni ideologiche sull’onda delle mode ecc.). Constata che libri che qualcuno aveva promesso di scrivere non sono stati scritti, che il denaro previsto serve a tappare altri buchi, ecc. Ne trae la conclusione che la metapolitica sia un insuccesso. Tenta, a partire dalla rete e dagli indirizzari del GRECE, di mettere in piedi dei fora regionali, chiamati ad organizzare l’opposizione contro Mitterrand e i socialisti che hanno appena preso il potere con le elezioni di maggio e giugno 1981. Per opporsi ai socialisti ed ai sessantottini che accedono ai posti di comando della società francese, occorre una rete di club politici. Marceau pensa che il futuro sia lì. Ma le carte che gioca nell’ambiente della destra gollista non portano a nulla. Marceau deve sciogliere i fora regionali. Lascia la scena. Il GRECE perde la buona carta che aveva: un organizzatore temibile e un mecenate che non contava mai i suoi regali. Exit Marceau. Exit il rigore e la disciplina d’apparato. Marceau si ritroverà due anni dopo nel partito di Le Pen, dove la sua generosità ed il suo senso del lavoro potranno offrire il meglio di sé.
Andandosene quest’uomo eccezionale, onesto e scrupoloso, Faye è destabilizzato. Perde protezione e garanzia. Non ha seguito Marceau; anti-liberale, poco attratto dagli ambienti politici conservatori a lato o all’interno del RPR, Faye crede ancora alla metapolitica. Lo fanno su. Gli fanno balenare un ritorno alla situazione del 1978: nuova casa editrice, creazione di un nuovo settimanale ecc. All’inizio del 1983 Faye, solamente con qualche amico, anima, nello spazio di otto mesi, tre brillanti giornate del suo CRMC (Collettivo di Riflessione sul Mondo Contemporaneo). Ma, dopo queste tre giornate di eccezionale livello intellettuale, il CRMC sparisce, e Faye non riesce a conservare questo circolo che avrebbe potuto fornirgli una piena autonomia. Tra il 1982 ed il 1985 partecipa alle “Conferenze di Atene”, organizzate dal rettore dell’Università della capitale greca, Jason Hadjidinas, che decederà prematuramente dopo averlo spronato a riprendere gli studi e a chiedere un dottorato. Tiene corsi di sociologia della sessualità all’Università di Besançon. Nel 1985, all’Università di Mons, prende la parola ad una importante conferenza euro-araba, a cui incontestabilmente dà un tono, seducendo con il suo talento di oratore Padre Michel Lelong, rappresentante del Vaticano per questa iniziativa lanciata dal Prof. Safar! All’indomani di questa conferenza alcune decine di quadri del GRECE si riuniscono per tentare un rinnovamento, fondando l’IEAL (Istituto Europeo di Arti e Lettere), che, sfortunatamente, non avrà avvenire. Ma dopo la morte di Jason Hadjidinas, che lo incoraggiava paternamente e cercava invano di correggere le sue snervanti ingenuità, Faye è sempre più isolato. Non partecipa più a grandi conferenze, né in Francia né altrove. Sotto lo pseudonimo di Gérald Fouchet redige eccellenti articoli ed eccezionali servizi in “Magazine Hebdo”, un news diretto da Alain Lefèbvre. Ma “Magazine Hebdo”, soffocato dai pubblicitari ostili alla ND, deve cessare le pubblicazioni. Faye non ha più altri introiti che il suo magro salario di permanente del GRECE. Gli anni ’86 ed ’87 sono per lui degli anni di impantanamento. Una propaganda perfidamente orchestrata lo descrive in tutta Europa come un esaltato, un pazzo ed un drogato. Chiacchiere che ho personalmente, con mio grande stupore, sentito da Armin Mohler nel giugno 1984. Dappertutto avevano diffuso la leggenda di un Faye un po’ tarato e, soprattutto, pasticcione, di cui si dovevano riscrivere gli articoli...
Appena prima della conferenza di Mons e la scomparsa del Rettore Hadjidinas, il Segretario Generale del GRECE del momento, Jean-Claude Cariou, ragazzo devoto fin quasi alla santità, tenta di salvare capra e cavoli. Sa, perché organizza, dal suo ufficio di Parigi, il programma delle conferenze, degli incontri e delle altre iniziative del movimento in provincia, che, senza Faye, il GRECE è condannato all’inaridimento. Ma Faye è personalmente paralizzato dal salario insignificante che percepisce come un’elemosina, come l’osso che si getta ad un cane randagio, dopo la partenza del generoso Marceau. Cariou suggerisce un rinnovamento del movimento, che implica:
a) il pagamento di un salario decente a Faye (rifiutato dai nuovi mecenati, due marcantoni, semianalfabeti, ma incommensurabilmente pretenziosi); questo suggerimento di Cariou mostra quanto Faye fosse dipendente ed assistito (rimprovero che gli è stato più volte mosso). C’è in questo una lezione da trarre da parte di tutti i giovani candidati alla lotta metapolitica;
b) un rimaneggiamento generale dei salari ed un controllo dei conti da parte di un ufficio regolarmente eletto;
c) una definitiva contestazione del potere occulto, cioè la trasparenza;
d) un ringiovanimento del movimento.
Qualche giorno dopo aver formulato queste ragionevoli proposte, Cariou viene espulso, dopo una messa in scena grottesca, in cui è costretto a comparire davanti ad una specie di tribunale riunito di corsa, composto da lacchè totalmente analfabeti capaci solo di urlare slogan imparati a memoria e ignoranti, beninteso, di tutte le sottigliezze della lotta metapolitica e delle idee che il loro movimento avrebbe dovuto difendere. Là si è mostrata in piena luce tutta la dimensione parodistica dell’avventura parigina della ND. L’idea strampalata di comporre un tribunale di questo genere dimostra che le pretese filosofiche di questa sfilza di individui immaturi non erano che un’illusione. La testimonianza scritta che ne lascia Cariou in una lettera è eloquente: mentre questi Fouquier-Tinville da operetta vociferavano ed eruttavano, Alain de Benoist, livido, in uno stato di ipernervosismo pietoso, si impappinava da solo nel suo ufficio adiacente, aspettando la fine della commedia. Tutto ciò terminato, il pontefice usciva dal suo antro per venire a balbettare alla vittima: “non tirare una bordata contro di me”, ripetendo questa ingiunzione tre o quattro volte di seguito, col terrore che gli torceva i visceri. Meccanicamente. Pietosamente. Con un rimorso nella voce che non sarà che passeggero, come tutti i suoi rimorsi. Il torto di Cariou è stato quello di non scoppiare a ridere davanti a quei buffoni, di salutare ed andarsene, punteggiando la sua uscita di ricami omerici e di lasciare quei miserabili saltimbanchi a terra, senza altra forma di processo. Semplicemente facendo loro intravvedere, non fosse che per un breve istante, i loro limiti, quanto erano derelitti. E anche di non aver raccontato la sua disavventura in uno scritto che avremmo avuto il piacere di diffondere. Questa negligenza ha permesso agli analfabeti di controllare il movimento e di fare e disfare i quadri a seconda degli umori dei loro esigui cervelli. Triste involuzione.
Dopo Cariou, Gilbert Sincyr tenterà di rimettere ordine nella baracca. Ma poiché Faye cominciava a protestare e poiché Alain de Benoist aveva imposto la presenza del neonazista Olivier Mathieu nel circolo “Etudes et Recherches”, solo appannaggio del Faye nel GRECE, Gilbert Sincyr lascerà velocemente il posto, disgustato a sua volta. L’Université d’été 1986 è un fiasco, volge alla commedia sotto la guida dell’inenarrabile Mathieu, l’uomo del momento di Alain de Benoist. La conferenza del novembre 1986 raccoglie poche adesioni. Marco Tarchi (animatore della ND italiana) ed io veniamo chiamati alla riscossa per dare spessore a questa conferenza, in cui Faye pronuncia un discorso che rivela il suo disappunto ed il suo rancore. Alain de Benoist, benché così attento alla propria rispettabilità, aveva all’epoca l’arte di scegliersi dei collaboratori molto singolari. Questo aneddoto tradisce in modo particolarmente esemplare l’atmosfera di fanciullaggine para-militare, di caporalismo e d’isteria nazistica regnante in questo ambiente che si riteneva strettamente intellettuale.
Nel 1987 Faye taglia definitivamente tutti i ponti che ancora l’uniscono al GRECE. Nel maggio dello stesso anno redige un proclama (allegato a questo testo), in cui traccia serenamente il bilancio del suo impegno. Questo testo è impregnato di una grande saggezza che contraddice tutte le dicerie fatte su Faye, che lo descrivono come pazzo, alcolista e drogato. A Bruxelles, dalla tribuna del GRESPE di Rogelio Pete, nel settembre 1987, in un lussuoso salone del prestigioso Hotel Métropole, tiene la sua ultima conferenza nell’ambito della ND. Tema: l’ideologia morbida. Molto calmo e molto metodico, ci descrisse i meccanismi della lingua di cotone (Huyghe) ed il totalitarismo morbido preparato da questo linguaggio edulcorato, annunciatore della nostra attuale political correctness. Peccato fosse arrivato al Métropole scortato dal sulfureo Mathieu, che non poté esimersi dal parlare di «sole nero inscritto in un cerchio bianco su fondo rosso». Tipo di slittamento lirico che il suo capo aveva certamente apprezzato in privato prima di assumerlo... Aver invitato Faye mi è costato un bel po’ di ingiurie telefoniche da parte di un militante incondizionato del GRECE, riorganizzato dagli analfabeti che avevano espulso Cariou... Senza dubbio intimidazioni a comando. Che non hanno sortito alcun effetto.
Nel 1987 il medievista Pierre Vial lascia a sua volta il GRECE per diventare un personaggio in vista del FN, privando le riviste del movimento metapolitico di un soffio storico, che non recupereranno più. In seguito a questo abbandono la collaborazione di Jean Mabire si fa sempre più rarefatta fino a sparire definitivamente, privando il movimento di testi di rara lucidità letteraria. Mabire offrirà i suoi articoli e i suoi ritratti di scrittori a “National Hebdo”, arricchendo questo foglio politico e polemico di miniature letterarie, raffinate e pertinenti.
Ecco dunque la cronologia dell’espulsione più spettacolare nella storia della ND. Ma ci sono stati degli altri abbandoni forzati, come quello di Giorgio Locchi, espulso nel 1979, con lui il movimento è stato privato del giudizio filosofico sicuro che gli aveva fornito la spina dorsale concettuale. In seguito c’è stata la mancata integrazione di Ange Sampieru, brillante giurista, costituzionalista ed economista, uomo delle grandes écoles, statista e critico pertinente del liberalismo. Poi il fuoco di sbarramento contro Thierry Mudry e Christiane Pigacé, che ha impedito l’irruzione di una storia alternativa, autenticamente incentrata sulla popolazione ed il contadinato, e di una filosofia politica che attinge direttamente a Julien Freund. Nel 1990 abbiamo assistito all’allontanamento del giovane Hugues Rondeau, animatore di Nouvelle Droite Jeunesse, che aveva richiesto il mio ritorno. Molto colto, Rondeau veniva dal gollismo, aveva un gusto letterario ben preciso, un senso dei valori e dell’estetica che non derivava dalle abituali manie delle destre parigine. Dopo venne il mio turno, nel 1992, in seguito a delle messe in scena che non descriverò per carità. Infine, nel 1993, Guillaume d’Erèbe viene a sua volta gettato come uno straccio, privando il movimento di un filosofo e di un politologo raffinato, buon conoscitore di Althusser, di Spinoza, delle eterodossie economiche, di Perroux e di Carl Schmitt. Il pasticcio è immenso. La ND si è indebolita. La ND non ha integrato nessuno. Muore lentamente di attrito; sopravvive soltanto per lo sfavillio del suo passato (1978-1982). Sopravvive per l’eccellenza degli scritti degli esclusi, quali che siano, peraltro, le loro differenze personali o le loro posizioni intellettuali (Faye, Sampieru, Locchi, Vial, Mabire...), per i residui di organizzazione (Marceau) e di gentilezza (Cariou), seminati da autentici militanti. Questo ci permette di dire che la comunità, concetto di cui si è sempre ammantato il GRECE, vive solamente fra gli esclusi. La vera comunità ND è al di fuori della struttura che vivacchia, ed in cui rimescolano nient’altro che i suoi affossatori.
Un osservatore imparziale dei movimenti politici francesi mi diceva che la ND è tipicamente parigina, nel senso che Action Française, il movimento surrealista raccolto intorno a Breton e i comunisti francesi hanno vissuto, anche loro, lunghe successioni di espulsioni. Si direbbe che esista un modello parigino di espulsionismo patologico che viene imitato da tutti, anche inconsciamente. La ND non sfuggirebbe dunque alla regola.
Conclusione: queste espulsioni lasciano molta amarezza, lasciano la sensazione di essere stati ingannati, raggirati da un qualche magliaro, di essersi infognati in una brutta commedia. La ND, nei suoi discorsi anti-cristiani, irrideva il precetto evangelico che consiste nel porgere la guancia destra quando si viene percossi sulla guancia sinistra. Non accettiamo dunque come una benedizione l’ingiustizia, nella speranza di ottenere il paradiso o un posticino in un GRECE chiamato a resurrezione. Bisogna presentare la fattura, quella di Faye, di Cariou e, soprattutto, quella di Marceau. Bisogna oramai far pagare il conto a quelli che hanno deliberatamente, per considerazioni di ordine personale o per interessi bassamente materiali, spezzato lo slancio della ND, spezzato lo slancio e lo sfolgorio di Faye, ucciso ancora nell’uovo questo habermassismo affermatore. Bisogna costruire. Costruire ciò che Faye non ha avuto modo di costruire. Restare fedeli, indissolubilmente fedeli alla sua memoria, alle sue idee, al suo impegno di un tempo. Ecco perché siamo sempre qui. Sempre con le nostre buone azioni. In testa l’adagio di Guillaume d’Orange, detto il Taciturno: «Non è assolutamente necessario sperare per intraprendere, né riuscire per perseverare».
Testo principale: Il sistema per uccidere i popoli di Guillaume Faye]
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