La diplomazia di Stalin
(Robert Steuckers)
La storia del nostro secolo viene insegnata dal punto di vista
americano. Questo vale per la Seconda Guerra mondiale, per la Guerra
Fredda e per la Guerra del Golfo. Nell’ottica americana, il XX secolo è
il “secolo americano”, in cui si deve instaurare e mantenere un ordine
mondiale conforme agli interessi americani, il quale è simultaneamente
la « fine della storia », il punto d’arrivo dell’avventura umana, la
sintesi definitiva della dialettica della storia. Francis Fukuyama, alla
vigilia della Guerra del Golfo, affermava che con la caduta della
Cortina di ferro e la fine dell’ « hegelismo di sinistra » rappresentato
dall’URSS, un solo modello, quello del liberalismo americano, sarebbe
esistito nei secoli. Senza più uno sfidante all’orizzonte. Da qui la
missione americana di reagire rapidamente, mobilitando il massimo dei
mezzi, contro ogni velleità di costruire un ordine politico alternativo.
Qualche anno prima di Fukuyama, un autore germano-americano,
Theodore H. von Laue, pretendeva che la sola autentica rivoluzione
nel mondo e nella storia era quella dell’occidentalizzazione e che tutte
le rivoluzioni politiche non occidentaliste, tutti i regimi basati su
altri principi rispetto a quelli in voga in America, erano reliquie del
passato che potevano solo allettare reazionari perversi che la potenza
economica e militare americana avrebbe allegramente spazzato via per
dare campo libero ad un iper-liberalismo di stampo anglosassone,
sbarazzato da ogni concorrente.
Valentin Faline, ex ambasciatore dell'URSS a Bonn, ha appena pubblicato in Germania un’opera di memorie storiche e di riflessioni storiografiche, in cui questo brillante diplomatico russo afferma che la Guerra Fredda cominciò dallo sbarco anglo-americano del giugno 1944 sulle spiagge della Normandia: dispiegando la loro armada navale e aerea, le potenze occidentali condussero già una guerra contro l’Unione Sovietica e non più contro la sola Germania moribonda. Un’attenta lettura di parecchie opere recenti dedicate ai molteplici aspetti della resistenza tedesca contro il regime hitleriano ci obbliga a rinunciare definitivamente ad interpretare la storia della Seconda Guerra mondiale e dell’alleanza anglo-americano-sovietica secondo il modo divenuto convenzionale.
L'ostilità a Stalin dopo il 1945 proviene soprattutto dal fatto che Stalin intende praticare una diplomazia generale basata sulle relazioni bilaterali tra le nazioni, senza che queste siano inquadrate da un’istanza universale come l’ONU. Dopo aver appreso che le due potenze anglosassoni hanno da sole deciso a Casablanca di fare la guerra ad oltranza al Reich, di far scoppiare la guerra totale e di esigere la capitolazione senza condizioni della Germania nazional-socialista, Stalin si sente escluso dai suoi alleati. Furioso, egli concentra la sua collera in questa frase ben calibrata, in apparenza anodina, ma molto significativa: "Gli Hitler vanno e vengono, il popolo e lo Stato tedesco rimangono". Stalin non considera il nazional-socialismo come il male assoluto o anche come un’essenza insuperabile, ma come un accidente della storia, una vicissitudine contrastante per la Russia eterna, che le armi sovietiche stanno semplicemente impegnandosi ad eliminare. Ma, nella logica diplomatica tradizionale, che rimane quella di Stalin nonostante l’ideologia messianica marxista, le nazioni non muoiono: non si può dunque esigere una capitolazione incondizionata e bisogna sempre lasciare la porta aperta a delle negoziazioni. In piena guerra, le alleanze possono cambiare del tutto, come mostra l’evidenza della storia europea. Stalin si limita a reclamare l’apertura di un secondo fronte, per dare respiro agli eserciti sovietici e risparmiare sangue russo: ma questo fronte non arriva che molto tardi, cosa che permette a Valentin Faline di spiegare questo ritardo come il primo atto della Guerra Fredda tra le potenze marittime anglosassoni e la potenza continentale sovietica. Questa reticenza staliniana si spiega anche con il contesto che precede immediatamente l’epilogo della lunga battaglia di Stalingrado e lo sbarco degli anglosassoni in Normandia.
Quando gli eserciti di Hitler e dei suoi alleati slovacchi, finlandesi, romeni e ungheresi entrano in URSS il 22 giugno 1941, i Sovietici, ufficialmente, giudicano che sono state tradite le clausole del Patto Molotov/Ribbentrop e, nell’autunno del 1942, dopo la gigantesca offensiva vittoriosa delle armate tedesche in direzione del Caucaso, Mosca è costretta a sondare il suo avversario in vista di una eventuale pace separata: Stalin vuole ritornare ai termini del Patto e conta sull’appoggio dei Giapponesi per ricostituire, sulla massa continentale eurasiatica, quel “carro a quattro cavalli” che gli aveva proposto Ribbentrop nel settembre 1940 (o “Patto Quadripartito” tra il Reich, l'Italia, l'URSS ed il Giappone). Stalin vuole un nulla di fatto: la Wehrmacht si ritira al di là della frontiera fissata di comune accordo nel 1939 e l'URSS pensa alle sue ferite. Parecchi attori partecipano a questi negoziati, rimasti largamente segreti. Tra di essi, Peter Kleist, addetto al Gabinetto di Ribbentrop e al « Bureau Rosenberg ». Kleist, nazionalista tedesco di tradizione russofila in ricordo delle amicizie tra la Prussia e gli Zar, va a negoziare a Stoccolma, dove il gioco diplomatico sarà serrato e complesso. Nella capitale svedese, i russi sono aperti a tutte le proposte; tra di essi, l’ambasciatrice Kollontaï e il diplomatico Semionov. Kleist agisce per conto del Gabinetto Ribbentrop e dell’Abwehr di Canaris (e non del « Bureau Rosenberg » che mira ad una balcanizzazione dell’URSS ed alla creazione di un potente stato ukraino per fare da contrappeso alla “Moscovia”).
Il secondo protagonista nel campo tedesco è Edgar Klaus, un israelita di Riga che fa da tramite tra i Sovietici e l'Abwehr (egli non ha relazioni dirette con le istituzioni propriamente nazional-socialiste). In questo gioco più o meno triangolare, i Sovietici vogliono il ritorno allo status quo ante 1939. Hitler rifiuta tutte le proposte di Kleist e crede di poter vincere definitivamente la battaglia prendendo Stalingrado, chiave del Volga, del Caucaso e del Caspio. Kleist, che sa che una cessazione delle ostilità con la Russia permetterebbe alla Germania di rimanere dominante in Europa e di dirigere tutte le sue forze contro i Britannici e gli Americani, si mette allora in contatto con gli elementi motori della resistenza anti-hitleriana, pur essendo personalmente inserito nelle istituzioni nazional-socialiste! Kleist contatta dunque Adam von Trott zu Solz e l'ex-ambasciatore del Reich a Mosca, von der Schulenburg. Egli non si rivolge ai comunisti e valuta, senza dubbio con Canaris, che i negoziati con Stalin permetteranno di realizzare l’Europa di Coudenhove-Kalergi (senza l’Inghilterra e senza la Russia), che è il sogno anche dei Cattolici. Ma i Sovietici non si rivolgono più ai loro alleati teorici e privilegiati, i comunisti tedeschi : essi puntano sulla vecchia guardia aristocratica, dove rimane il ricordo dell’alleanza di Prussiani e Russi contro Napoleone, come quello della tacita neutralità dei Tedeschi durante la guerra di Crimea. Come Hitler rifiuta ogni negoziato, Stalin, la resistenza aristocratica, l'Abwehr ed anche una parte della sua guardia pretoriana, la SS, decidono che egli deve sparire. E’ qui che bisogna vedere l’origine del complotto che porterà all’attentato del 20 luglio 1944. Ma dopo l’inverno 42-43, i Sovietici rimettono piede a Stalingrado e distruggono la punta di diamante della Wehrmacht, la VI Armata che accerchia la metropoli del Volga. La carta tedesca dei Sovietici sarà allora costituita dal « Comitato Germania Libera », con il Maresciallo von Paulus e ufficiali come Seydlitz-Kurzbach, tutti prigionieri di guerra. Stalin non ha sempre fiducia nei comunisti tedeschi, tra i quali ha fatto eliminare gli ideologi irrealisti ed i massimalisti rivoluzionari trotskisti, che hanno sempre deliberatamente ignorato, per cecità ideologica, la nozione di « patria » e le continuità storiche plurisecolari; alla fine, il dittatore georgiano non si trova a disposizione come elemento utilizzabile, che Pieck, un militante non si è mai posto troppe domande. Pieck farà carriera nella futura RDT.
Stalin non ha nemmeno in vista un regime comunista per la Germania post-hitleriana: egli vuole un « ordine democratico forte », con un potere esecutivo più preponderante rispetto alla Repubblica di Weimar. Questo veduta politica di Stalin corrisponde perfettamente alla sua prima scelta: Puntare sulle élites militari, diplomatiche e politiche conservatrici, uscite in maggior parte dall’aristocrazia e dall’Obrigkeits-staat prussiano. La democrazia tedesca che deve venire dopo Hitler, secondo Stalin sarà di ideologia conservatrice, con una fluidità democratica controllata, canalizzata e inquadrata da un sistema di educazione politica rigorosa. I Britannici e gli Americani sono sorpresi: essi avevano creduto che lo “Zio Joe” stesse per avallare senza reticenze la loro politica massimalista, in rottura totale con tutte le consuetudini diplomatiche in vigore in Europa. Ma Stalin, come il Papa e Bell, vescovo di Chichester, si oppone al principio radicalmente rivoluzionario della resa incondizionata che Churchill e Roosevelt vogliono imporre al Reich (che permarrà, pensa Stalin, come principio politico nonostante la presenza effimera di un Hitler). Se Roosevelt, facendo appello alla dittatura mediatica che egli tiene in pugno negli Stati Uniti, giunge a ridurre al silenzio i suoi avversari, confondendo ogni ideologia, Churchill in Inghilterra ha maggiori difficoltà. Il suo avversario principale è questo Bell, Vescovo di Chichester. Per quest’ultimo, non esiste di ridurre al nulla la Germania, perché la Germania è la patria di Lutero e del protestantesimo. Al « fino in fondo » di Churchill, Bell oppone la nozione di una solidarietà protestante e allerta i suoi omologhi olandesi, danesi, norvegesi e svedesi, gli stessi suoi interlocutori in seno alla resistenza tedesca (Bonhoeffer, Schönfeld, von Moltke), per mettere un freno al bellicismo oltranzista di Churchill, che si manifesta con bombardamenti massicci di obiettivi civili, compresi nelle cittadine senza importanti infrastrutture industriali.
Per Bell, l'avvenire della Germania non è né il nazismo né il comunismo, ma un « ordine liberale e democratico ». Questo soluzione, preconizzata dal vescovo di Chichester, non è evidentemente accettabile per il nazionalismo tedesco tradizionale: essa costituisce un sottile ritorno alla Kleinstaaterei, alla mosaico di stati, di principati e di ducati, che le visioni di List, di Wagner, etc., e il pugno di Bismarck avevano cancellato dal centro del nostro continente. L' « ordine democratico forte » suggerito da Stalin è più accettabile per i nazionalisti tedeschi, il cui obiettivo è sempre stato quello di creare delle istituzioni e una paideia forti per proteggere il popolo tedesco, la sostanza etnica germanica, dalle proprie debolezze politiche, dalla sua mancanza di senso della decisione, dal suo particolarismo atavico e dai suoi tormenti morali incapacitanti. Oggi, in effetti, parecchi osservatori nazionalisti constatano che il federalismo della costituzione del 1949 s'inscrive forse in una tradizione giuridico-costituzionale tedesca, ma che la forma da esso presa, nel corso della storia della RFT, rivela la sua natura di “concessione”. Una concessione delle potenze anglosassoni… Di fronte agli avversari della capitolazione incondizionata in seno alla grande coalizione anti-hitleriana, la resistenza tedesca rimane nell’ambiguità: Beck e von Hassell sono filo-occidentali e vogliono perseguire la crociata anti-bolscevica, ma in un senso cristiano; Goerdeler e von der Schulenburg sono in favore di una pace separata con Stalin. Claus von Stauffenberg, autore dell’attentato del 20 luglio 1944 contro Hitler, proviene dai circoli poetico-esoterici di Monaco, dove il poeta Stefan George svolge un ruolo preponderante. Stauffenberg è un idealista, un « cavaliere della Germania segreta »: egli rifiuta di dialogare con il « Comitato Germania Libera » di von Paulus e von Seydlitz-Kurzbach: “non si può accordare fiducia a dei proclami fatti dietro il filo spinato”. I sostenitori di una pace separata con Stalin, contrari all’apertura di un fronte orientale, sono stati immediatamente attenti alle proposte sovietiche di pace avanzate dagli agenti di stanza a Stoccolma. I sostenitori di un “nulla di fatto” ad Est sono ideologicamente degli « anti-occidentali », provenienti dai circoli conservatori russofili (come il Juni-Klub o i Jungkonservativen nel segno di Moeller van den Bruck) o dalle leghe nazional-rivoluzionarie derivate dai Wandervogel o dal “nazionalismo militare”.
La loro speranza è di vedere la Wehrmacht ritirarsi in buon ordine dalle terre conquistate in URSS e ripiegare al di qua della linea di demarcazione in Polonia dell’ottobre 1939. E’ in questo senso che gli esegeti contemporanei dell’opera di Ernst Jünger interpretano il suo famoso testo d guerra, dal titolo “Note caucasiche”. Ernst Jünger vi percepisce le difficoltà di stabilizzare un fronte nelle sterminate steppe oltre il Don, dove l’immensità del territorio impedisce un controllo militare ermetico come in un paesaggio centro-europeo o delle pianure francesi, lavorato e rilavorato da generazioni e generazioni di piccoli coltivatori tenaci che hanno dato forma al territorio con recinti, proprietà, siepi e costruzioni di una rara densità, che permettono agli eserciti di scontrarsi sul terreno, di mimetizzarsi e di tendere imboscate. È molto verosimile che Jünger abbia sostenuto il ritiro della Wehrmacht, sperando, nella logica nazional-rivoluzionaria, che era stata sua negli anni 20 e 30, e dove era ben presente la russofilia politico-diplomatica, che le forze russe e tedesche, riconciliate, si impegnassero ad interdire per sempre l’accesso alla « fortezza Europa », ossia alla « fortezza Eurasia », alle potenze talassocratiche che praticano sistematicamente quella che Haushofer chiamava la « politica dell’anaconda », per soffocare ogni velleità di indipendenza sulle frange litorali del “Grande Continente”(Europa, India, Paesi arabi, etc.).
Ernst Jünger redige le sue note caucasiche nel momento in cui cade Stalingrado e in cui la VI Armata viene annientata nel sangue, nell’orrore e nella neve. Ma malgrado la vittoria di Stalingrado, che permette ai Sovietici di sbarrare ai Tedeschi la strada del Caucaso e del Caspio e di impedire ogni manovra a monte del fiume, Stalin prosegue i suoi pourparler sperando ancora im una “partita nulla”. I Sovietici mettono termine ai loro approcci solo dopo gli incontri di Teheran (28 novembre - 1 dicembre 1943). In quel momento, Jünger sembra essersi ritirato dalla resistenza. Nella sua celebre intervista a Spiegel nel 1982, immediatamente dopo aver ricevuto il Premio Goethe a Francoforte, egli dichiara: "Gli attentati rafforzano i regimi che vogliono abbattere, soprattutto se falliscono". Senza dubbio Jünger, come Rommel, rifiutava la logica dell’attentato. Cosa che non per Claus von Stauffenberg. Le decisioni prese dagli Alleati occidentali e dai Sovietici a Teheran rendono impossibile un ritorno al punto di partenza, vale a dire alla linea di confine dell’ottobre del 1939 in Polonia. Sovietici ed Anglosassoni si mettono d’accordo per « trasferire l’armadio polacco » verso Ovest e concedergli una zona di occupazione permanente in Slesia e in Pomerania. A tali condizioni, i nazionalisti tedeschi non possono più negoziare e Stalin si trova imbarcato d’ufficio nella logica del “fino in fondo” di Roosevelt, mentre egli in partenza l’aveva rifiutata. Il popolo russo pagherà molto caro questo cambiamento di politica, favorevole agli Americani. Dopo il 1945, constatando che la logica della Guerra Fredda mira ad un accerchiamento e ad un contenimento dell’Unione Sovietica per impedirle lo sbocco sui mari caldi, Stalin reitera le sue offerte alla Germania esangue e divisa : la riunificazione e la neutralità, cioè la libertà di darsi un regime politico di sua scelta, in particolare un “ordine democratico forte”. Questo sarà l’obiettivo delle “note di Stalin” del 1952.
La morte prematura del Vojd sovietico nel 1953 non permette all’URSS di continuare a giocare questa carta tedesca. Khruchtchev denuncia lo stalinismo, si innesta sulla logica dei blocchi che Stalin rifiutava e non ritorna all’anti-americanismo che nel momento dell’affaire di Berlino (1961) e della crisi di Cuba (1962). Non si riparlerà delle “note di Stalin” che alla vigilia della perestroïka, durante le manifestazioni pacifiste del 1980-83, in cui più di una voce tedesca ha reclamato l’avvento di una neutralità al di fuori di ogni logica di blocco. Certi emissari di Gorbatchev ne parlano ancora dopo il 1985, specialmente il germanista Vyateslav Dachitchev, che prende la parola ovunque in Germania, compreso in qualche circolo ultra-nazionalista. Alla luce di questa nuova storia della resistenza tedesca e del bellicismo americano, noi dobbiamo gettare un nuovo sguardo sullo stilismo e l’anti-stalinismo. Quest’ultimo, ad esempio, serve a pervadere una mitologia politica manipolata e artificiale, il cui ultimo obiettivo è rifiutare ogni forma di concertazione internazionale basata su relazioni bilaterali, di imporre una logica dei blocchi o una logica mondialista tramite quello strumento rooseveltiano che è l'ONU, di stigmatizzare in partenza ogni rapporto bilaterale tra una potenza media europea e la Russia sovietica (la Germania del 1952 e la France di De Gaulle dopo gli avvenimenti d'Algeria). L'anti-stalinismo è una variante del discorso mondialista. La diplomazia staliniana, essa, era a sua volta e in un contesto molto particolare, conservatrice delle tradizioni diplomatiche europee.
Bibliografia:
- D. BAVENDAMM, Roosevelts Weg zum Krieg. Amerikanische Politik 1914-1939, Herbig, München,1983.
- D. BAVENDAMM, Roosevelts Krieg 1937-45 und das Rätsel von Pearl Harbour, Herbig, München, 1993.
- Valentin FALIN, Zweite Front. Die Interessenkonflikte in der Anti-Hitler-Koalition, Droemer-Knaur,
München, 1995.
- Francis FUKUYAMA, La fin de l'histoire et le dernier homme, Flammarion, 1992.
- K. von KLEMPERER, German Resistance Against Hitler. The Search for Allies Abroad. 1938-1945,
Oxford University Press/Clarendon Press, 1992-94.
- Theodore H. von LAUE, The World Revolution of Westernization. The Twentieth Century in Global
Perspective, Oxford University Press, 1987.
- Jürgen SCHMÄDEKE/Peter STEINBACH (Hrsg.), Der Widerstand gegen den National-Sozialismus. Die
deutsche Gesellschaft und der Widerstand gegen Hitler, Piper (SP n°1923), München, 1994.
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