Omaggio a Jean Thiriart (1922-1992)
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Il 23 novembre 1992,
Jean Thiriart, fondatore e animatore del movimento politico «Jeune
Europe» negli anni 60, si spegne improvvisamente, colpito in piena
salute ed in piena attività. Dopo Jean van der Taelen, che apprende la
notizia dal loro comune legale, Jean-Pierre de Clippele, io sono il
primo a saperlo. Jean mi chiama subito, verso le ore 20 e 30, mentre sto
lavorando a mettere in ordine dei vecchi documenti nella mia cantina.
Con il morale a terra, salgo i gradini quattro a quattro: l'invincibile,
lo sportivo, l'incarnazione dell’energia, l’imperatore romano, il
burlone, il vecchio miscredente, è appena stato portato via dalla
“Grande Falciatrice”.
Ci
si aspettava la scomparsa di molti altri, più sofferenti, meno vigili,
più anziani, non la sua. Ben presto, il telefono squilla e odo voci
costernate, lacrime, da Parigi a Mosca, passando per Milano o Marsiglia.
Per alcune idee ben articolate, Jean Thiriart ha dato un impulso nuovo a
questa sfera che si qualifica «nazional-rivoluzionaria» e che
sfugge a tutte le classificazioni semplicistiche, tanto le sue
preoccupazioni, le sue varianti sono vaste e differenziate. Thiriart ha
anche enunciato dei principi d’azione che conservano tutta la loro
validità, non solo per questo microcosmo NR, ma anche per ogni praticante della politica, quale che sia l’orientamento ideologico del suo impegno.
Nato nel 1956, io non potei osservare in azione Jeune Europe,
sull’ondata della decolonizzazione, subito prima del maggio 68. Avendo
acquisito le mie prime convinzioni politiche verso i 14-15 anni, cioè
nel 1970-71, constatando ben presto le turpitudini del regime, le sue
chiusure che impediscono al cittadino normale, senza legami di parte,
confessionali o associativi, di partecipare attivamente alla vita della
città, coltivai le mie idee al di fuori di ogni organizzazione o
associazione fino all’età di 24 anni, quando scoprii le attività della
«Nuova Destra».
Jeune Europe non aveva lasciato tracce né dentro la società, all’epoca affogata nella stupidità sessantottarda, «freudo-marxista», né all’interno delle sfere militanti che, in maggioranza di sinistra, facevano leva sull’esotismo angolano, boliviano o vietnamita, senza più preoccuparsi delle alienazioni che colpiscono i popoli europei. A fortiori poche opere facevano riferimento all’azione e agli scritti di Thiriart. In certi fogliacci di sinistra, male redatti, volgari, infarciti di errori di sintassi e di ortografia (come è giusto nella buona logica egalitarista) il suo nome compariva a volte come quello di un «satana» ed io non vi prestavo attenzione. In un’opera che prefigurava le monomanie dei nostri ultimi cinque anni, Il razzismo nel mondo di Pierre Paraf, pubblicata con il sostegno della LICRA, «la rivista Jeune Europe di Bruxelles» era descritta come «anti-americana e anti-gaullista», e, beninteso, come «razzista». Dopo averne acquisito una raccolta presso un rivenditore di libri usati, dieci o undici anni dopo potei invece constatare che essa conteneva due articoli di Thiriart che criticavano aspramente la nocività pratica del razzismo, in cui esso veniva descritto come il camuffamento di problemi affettivi, spesso di origine sessuale. Gli ambienti che fanno professione di «anti-razzismo» mi sembrarono da quel momento dei cenacoli di esaltati isterici che, alla maniera degli illuminati «razzisti», hanno bisogno di capri espiatori per appagare il loro mal vivere. Razzismi e anti-razzismi non sono che delle varianti di una medesima malattia, di uno squilibrio psichico che risale senza dubbio alla prima infanzia. Thiriart ne era convinto, lo ripeteva a chi voleva capirlo e la chiamava la «psicopatologia dei gruppuscoli politici».
È con la scoperta di un esemplare di Europa, un impero di 400 milioni di uomini,
sulla bancarella di un libraio che ho appreso chi era veramente Jean
Thiriart. La buona tenuta di questo libro, la chiarezza e la limpidezza
degli argomenti che egli vi sviluppava, l’apporto delle carte
geopolitiche, mi convinsero subito che Jean Thiriart non era un
agitatore esaltato di estrema destra, come tentavano di far credere quei
buoni a nulla della sinistra post-sessantottarda, trasandati, mai in
pace con se stessi, anti-politici, privi di ogni senso storico, che
avevano allora per lettura di base l’assai effimero Hebdo 75, assortito
di vignette di pessimo gusto che la dicevano lunga sulla psico-patologa
dei loro autori. Jean Thiriart non sembrava come uno di quei
polemisti di destra che esibiscono, forse in modo molto brillante, i
loro brontolii su fogli popolari (e a volte plebei) senza mai proporre
niente di concreto. È così che appresi che era esistita Jeune Europe.
Nello stesso momento, in un quaderno del molto ufficiale CRISP (Centro
di ricerca e d’informazione socio-politica), compariva una storia
dell'«estrema destra» belga firmata da Etienne Verhoeyen. Ed è così che
scoprii il contesto nel quale veniva cacciata, un po’ arbitrariamente,
«Jeune Europe». Di tutti i cenacoli, gruppuscoli, partiti o associazioni
che avevano infarcito la cronaca «destrorsa» belga dopo il 1945,
incontestabilmente «Jeune Europe» si distingueva. E per i giovanissimi
che noi eravamo e che stavamo vivendo un età d’oro e di abbondanza che
senza dubbio non tornerà mai più, lettori di classici latini, di La Rochefoucauld, di Nietzsche per «far imbestialire» i parroci e i conformisti, di Marcuse (maggio 68 impone), delle Lettere sull’Umanesimo di Heidegger, perché ci erano state imposte, di Koestler, di Camus e di Orwell, «Jeune
Europe» sembrava subito un possibile strumento della politica, meglio,
qualcosa di naturale, di non ideologico, di portatore di storia.
«Jeune Europe» non ci appariva certo come un’organizzazione di sinistra
perché, in questo caso, non l’avremmo amata, dal momento che la
sinistra, già allora, era la tosse asinina dei professori che si
piccavano di essere intellettuali e, visto che questi professori ci
davano ai nervi, noi evidentemente prendevamo un piacere maligno nel
contrariarli. Ma «Jeune Europe» conteneva delle idee universali che si
confacevano ai giovani lettori di Koestler e di Camus che eravamo: «Jeune Europe» era europea e noi ci sentivamo molto naturalmente «europei» o «imperiali», al di là delle frontiere esistenti;
«Jeune Europe» non era nazionalista belga, cosa che ci faceva piacere
perché tutto ciò che riguardava lo Stato belga, i suoi uomini politici,
le sue istituzioni, ci sembrava una buffonata oppure qualcosa di
spregevole. Decidemmo di rintracciare degli ex di Jeune Europe. È così
che dopo una lunga ricerca capitammo su Bernard Garcet, un ex
animatore della sezione di Louvain di Jeune Europe. Garcet aveva
conservato qualche documento di quell’epoca movimentata in cui era
studente militante. Le nostre domande lo divertirono e ben presto egli
decise di riformare, a casa sua con la complicità della sua affascinante
signora, una piccola scuola-quadri nello stile di «Jeune Europe».
Accettammo ed è così che successivamente scoprimmo le tesi di Mosca e di Pareto (in particolare la circolazione delle élites), i corsi di Raymond Aron sulle grandi figure della sociologia, La sociologia della rivoluzione di Jules Monnerot, che completammo con alcune tesi di Jean Baechler, il sistema di Pitirim Sorokin, L'era degli organizzatori di James Burnham, Lo stupro delle masse da parte della propaganda politica di Serge Tchakhotine.
È in questa cerchia privata e molto ristretta che tenni bene o male le
mie due prime conferenze: una sulla descrizione del conservatorismo in Ideologia e Utopia di Karl Mannheim e l'altra sulle tesi di Louis Rougier circa il Basso Impero romano (che Garcet criticava).
Per noi, «Jeune Europe» era sinonimo di università privata.
L'immagine che avevamo dell’organizzazione non era né politica né
attivistica. Era senza dubbio un errore di ottica, Jeune Europe, nello
spirito di Thiriart, che voleva uno strumento di «politica pura», in cui
l’azione diretta precedesse ogni speculazione teorica. È così che io
sono sempre stato un po’ in posizione precaria con Thiriart. Tuttavia,
non credo che si possa sempre fare politica concreta senza una
formazione storica e teorica solida, che si acquisisce con molta
pazienza e tempo. Le nostre società sono diventate troppo complesse per
lanciare dei semplici militanti nella battaglia o innalzarli ai posti di
comando di una società o di uno Stato attraverso i meccanismi di
un’elezione o di una rivoluzione: si va ben presto verso la catastrofe,
cosa che forse voleva dire Thiriart, quando stigmatizzava gli
avvenimenti di Croazia del 1991-92: «Uno tassista si impadronisce di
una mitraglietta e recluta venti marginali in un caffè e diviene così un
leader politico. È aberrante!».
Vidi
per la prima volta Jean Thiriart nel 1979, un giorno in cui avevo
lasciato cadere i miei occhiali e avevo bisogno di un nuovo paio nel più
breve tempo possibile. Quel giorno, ruvido, Thiriart mi disse che non
voleva più avere niente a che fare «con tutti quei brocchi della
politica». Ma io risvegliai la sua attenzione parlandogli del libro del
Generale austriaco Jordis von Lohausen, che stavo riassumendo per un lavoro universitario e che avrei pubblicato a fine 80 sotto forma di un primo numero speciale di Orientations.
Dopo, rimanemmo in contatto. All’inizio, era molto episodico. Poi, nel
1981-82, dopo essere stato aggredito da degli scagnozzi che difendevano
non so quale causa fumosa, Thiriart decise di riprendere a scrivere,
specialmente nella rivista Conscience européenne, in cui si esprimerà regolarmente e che era stata fondata nel gennaio 1982 da Alain Derriks, oggi deceduto, e da Roland Pirard,
che ha lasciato la politica, prima che questa passasse in altre mani a
partire dal 1984. Il ritorno della geopolitica nel dibattito, con i
lavori di Jordis von Lohausen nell’area tedesca e quelli di Marie-France Garaud, del Generale Gallois, dell'Ammiraglio Célérier, di Yves Lacoste, di Hervé Coutau-Bégarie in France, di Colin S. Gray
negli USA, etc., interessavano al massimo Thiriart.
Egli ritrovava una
tonalità che aveva scoperto, alcuni decenni prima, presso uno dei suoi
autori preferiti: il grande, il prolisso Anton Zischka, che aveva
iniziato la sua carriera nel 1925, con un libro sulla guerra del
petrolio e l’ha terminata, fino a nuovo ordine, nel 1987, con una
rimarchevole opera sull’imperialismo del dollaro, comparsa in appendice,
per quattro settimane, sulla rivista Der Spiegel. Il libro di Zischka
preferito da Thiriart era senza dubbio Afrique, Complément de l'Europe
(Laffont, Parigi, 1952). Per un uomo che aveva ricominciato una
carriera politica nell’effervescenza della decolonizzazione, questo
libro evidentemente rivestiva un’importanza capitale. Recensito con
calore sulla stampa belga agli inizi degli anni 50, questo libro
intendeva pianificare la fusione economica e geopolitica dell’Europa e
dell’Africa. Questa fusione avrebbe fatto del Mediterraneo un “mare
interno”, avrebbe dato all’Europa lo spazio che le mancava per il suo
surplus demografico e le materie prime necessarie alla sua industria e
alla sua potenza militare. Questo progetto, fu reso impossibile e
irrealizzabile, dalla decolonizzazione teleguidata da Washington,
condannando l’Europa alla stagnazione, alla disoccupazione e alla
sotto-occupazione, generatrici di inquietanti squilibri sociali.
Quest’opera è stata capitale per la genesi del pensiero geopolitico di
Thiriart, cosa che egli ammetteva con franchezza. Noi non potremmo
chiudere questo paragrafo sul rapporto intellettuale Thiriart/Zischka
senza ricordare che Zischka fu pure autore di un’opera tradotta e
pubblicata a Bruxelles durante la guerra: La scienza frantuma i monopoli
(Ed. de la Toison d'Or, 1941). Thiriart, e l'élite belga
indipendentemente da ogni opzione ideologica, seppero apprezzare nel suo
giusto valore questa grande opera, chiara, precisa, didattica e
programmatica. D’altronde, la vedova del prigioniero di guerra belga,
socialista e massone, Somerhausen la elogia nelle sue memorie, senza che
si possa accusarla di essere germanofila e nazionalsocialista! Una
buona parte di ciò che è stato chiamato lo «scientismo» e
l'«iper-pragmatismo» di Thiriart è uscito da questo volume. In effetti,
una semplice occhiata ai titoli dei capitoli permette di rendersene
conto. Zischka comincia con il ragionare sulla «più grande di tutte le vittorie: la vittoria sulla paura».
La paura della fame fa agire gli uomini, è la ragione per cui essi
cominciano a creare monopoli che, assai presto, dettano legge sulla
nostra vita e bloccano ogni nuova progressione. La scienza chimica e
biologica, ad esempio con un Liebig, rende estremamente redditizio il
suolo europeo e sottrae le popolazioni al pericolo di carestie.
Questo processo di scoperte costanti deve essere mantenuto libero da
ogni ostacolo, perché permette di acquisire e di conservare la potenza,
di abolire i privilegi di classe. Così, se un tempo i monopoli sono
stati utili per l’autonomia alimentare dell’Europa, essi non hanno il
diritto di bloccare le iniziative che renderebbero le loro posizioni
precarie perché, così agendo, renderebbero fragile l’indipendenza della
comunità europea e rinforzerebbero l’alienazione di larghi strati della
sua popolazione.
Questa logica della priorità del sapere sul possesso
dei mezzi di produzione che, in ultima istanza, emerge dall’opera di
Joseph A. Schumpeter, Thiriart l'ha sempre fatta propria, specialmente nella sua lotta sindacale nel settore dell’ottica e dell’optometria. Egli
combatteva dei blocchi, diceva, dei monopoli ingiusti che non miravano a
proteggere il consumatore, ma a mantenere delle posizioni acquisite,
dei benefici economici. Nel corso di quel nuovo periodo di
effervescenza, che seguì immediatamente l’attentato di cui era stato
vittima, Thiriart classificò i suoi documenti, aggiornò le sue tesi,
eliminò dal suo pensiero tutte le scorie di anti-sovietismo dei tempi
della guerra fredda e della crisi di Cuba. Parallelamente al movimento
pacifista tedesco, condotto dalla sinistra verde e dall’ala sinistra
della socialdemocrazia (Eppler, Lafontaine), ma anche, dietro le quinte,
da un neo-nazionalismo neutralista, Thiriart definì l’unico nemico dell’Europa in quanto possibile potenza: l'America. Egli si ritrovava così con la Nuova Destra che aveva optato per la medesima via, dopo la comparsa del magistrale testo di Giorgio Locchi (sotto lo pseudonimo di Hans-Jürgen Nigra), nei numeri 27-28 di Nouvelle Ecole, la rivista di Alain de Benoist. Guillaume Faye
ne seguì subito l’esempio, con la verve ed il talento oratorio che gli è
proprio. Faye, d'altronde, ammirava la chiarezza di vedute di Thiriart e
ritrovava nel leader di Jeune Europe, una persona in sintonia, nel
senso in cui entrambe erano lettori assidui di Pareto. Qui, debbo una
rettifica: nell’opuscolo intitolato Petit Lexique du Partisan Européen,
non è Faye che ha scritto la frase in omaggio Thiriart, contrariamente a
quanto affermato da una sfilza di polizieschi scribacchini di Le Monde,
o da quel piccolo maestro di delazione che è Celsius, ma da Pierre
(Willy) Fréson. Tuttavia, nel fondare l’associazione EUROPA nel 1987,
dopo aver rotto con il GRECE, Faye optò per un europeismo molto simile,
nelle sue linee principali, a quello di Thiriart, ma corretto
dall’ottica del CIPRE di Yannick Sauveur. Faye rese d’altronde un
implicito omaggio al leader di Jeune Europe in una delle sue opere:
Nouveau discours à la Nation européenne (Albatros, 1985). Il 21 gennaio
1987, un gruppo di giornalisti americani della rivista The Plain Truth (California) giunse ad intervistare e a filmare Jean Thiriart a Bruxelles. Lo
script completo di questa intervista di 35 minuti su videocassetta
contiene a mio avviso il pensiero di Jean Thiriart in tutta la sua
maturità (qui l'intervista completa in italiano ndr).
Naturalmente,
la caduta del Muro di Berlino ha cambiato le carte. Interrogato
contemporaneamente a diverse importanti personalità europeo, Thiriart
poté formulare i propri punti di vista su un piano di parità, senza
censure mutilanti. Tra gli intervistati, segnaliamo: l'eminente storico
britannico, conservatore ed europeista, Paul Johnson, il giurista
inglese Leo Price e il diplomatico olandese, ex vicesegretario generale
dell’ONU, Dr. J.G. de Beus. Nelle sue risposte, Thiriart evoca
l’impatto della geopolitica sul suo pensiero, l'impatto delle concezioni
di Friedrich List, gli errori piccolo-nazionalisti di Hitler e dei
nostalgici del III Reich (accusati di essere incapaci di pensare
l'«osmosi» tra le nazioni europee, Russia compresa), la sua concezione
di un blocco euro-sovietico, la sua concezione della strategia navale,
il suo progetto di pace con la Cina, le garanzie da offrire ad Israele
nel caso della partenza della VI flotta americana dal Mediterraneo, le
sue vedute sulla guerra economica tra gli Stati Uniti e l’Europa. In
quest’opera breve ma densa, si è lontani dalle polemiche dei primi anni
di Jeune Europe. Si nota con interesse che Thiriart propone cose
concrete, offre ai suoi avversari dei progetti realizzabili e
sostenibili, non li costringe al peggio. Come Haushofer (che egli
stranamente ed ingiustamente critica), egli propone una dinamica delle
forze all’opera nel mondo, una dinamica centripeta di dimensioni
continentali, che deve condurre ad una pace durevole, ad una nuova
versione della pax romana. Il miei rapporti epistolari con Jean
Thiriart, nel corso dei primi sei-sette anni del decennio 80, non sono
stati certo armoniosi. Sarebbe ipocrita negarlo. Jean Thiriart giudicava
che i lavori delle nuove destre fossero troppo eclettici, troppo
diversificati, troppo dispersi. Adepto del principio «politica innanzi
tutto», come Maurras, Carl Schmitt o Julien Freund, Thiriart aveva orrore per la letteratura, per la filosofia puramente speculativa e per le « varietà ». Egli strillava quando pubblicavo articoli di archeologia (per esempio nel n. 4 di Orientations).
Ma, malgrado il suo stile epistolare assai colorito, infarcito di
epiteti degni del Capitano Haddock, non me la presi mai con lui perché,
nonostante la loro insufficienza o la loro impertinenza globale, le sue
osservazioni o le sue critiche contenevano sempre un nucleo irriducibile
di verità, del quale ho voluto sempre tenere conto. Ma questi appunti
avevano la debolezza di essere pronunciati nella prospettiva del solo
Thiriart. Lettore di Nietzsche, so che una prospettiva non è mai falsa a
priori, ma che il reale deve essere giudicato a partire da diverse
prospettive alla volta e che l’attore dell’osservazione deve essere
capace di saltare da una prospettiva all’altra: plurilogica di un mondo
plurale. Plurilogica che Thiriart, assai caratterizzato dal pensiero
meccanicista (che egli allegramente confondeva con il «materialismo»),
concepiva con molta difficoltà. Lettore assiduo ed appassionato
dell’opera di Joseph Vialatoux, La Cité totalitaire de Hobbes,
Théorie naturaliste de la civilisation, Essai sur la signification de
l'existence historique du totalitarisme (Chronique sociale de France,
Lione, 1952), Thiriart ne distribuiva delle copie, in cui era molto
significativamente messa in evidenza, di propria mano, la seguente
frase: «Quello a cui Hobbes dà valore, è che la concezione di stato
autenticamente totalitaria è un naturalismo, che il naturalismo
autentico è un materialismo e che il materialismo autentico è un
meccanicismo puro». O ancora: «La Città di Hobbes è una Gesellschaft contrattuale;
è il tipo stesso del raggruppamento “societario”, in opposizione al
“comunitario”...
E’ da Hobbes che Tönnies ha preso a prestito il modello
della Gesellschaft; ed è in opposizione a questa città contrattuale che egli ha definito la Gemeinschaft comunitaria». Più avanti: «Si
riconoscerà lo Stato totalitario e si misurerà il suo totalitarismo
specialmente al punto in cui la politica vi sarà concepita e praticata
come una pura tecnica. La pratica totalitaria sarà machiavellica. Essa
dipenderà, non più da una virtù di prudenza politica al governo di
soggetti, al servizio di persone, ma da una tecnica manipolatrice di
oggetti, di manutenzione di cose». E, p. 80: «La teologia, dirà
Hobbes, ha scatenato le controversie, e le controversie, le guerre (...)
ed è alla pace geometrica e meccanica delle cose che va chiesto il
segreto della pace degli uomini sulla terra». P. 145: «L'uomo non sfugge alla malasorte che sottomettendosi ad un dominium». P. 151: «Le
nazioni tra loro non sono per nulla in stato naturale di diritto
internazionale, ma in stato naturale di guerra internazionale». Queste poche citazioni del libro di Vialatoux su Hobbes riassumono magnificamente la
visione thiriartiana del politico: spiegazione di tutti i fenomeni del
mondo e della scena politica attraverso un materialismo che è
meccanicismo o tecnicismo puro. Thiriart resterà impenetrabile ad
ogni logica organica, nata dal biologismo romantico, nonostante qualche
infatuazione per l’etologia di Konrad Lorenz, che si fonda su basi
diametralmente contrarie a quelle dell’hobbesianesimo. Nel materialismo,
nel fascino che egli provava di fronte al magnifico macchinario
euclideo di Hobbes, Thiriart credeva di avere scoperto le formule
magiche (eh sì!) della sua politica. Sfortunatamente, quello che era
novità al tempo di Hobbes, era completamente obsoleto nella seconda metà
del XX secolo, a fortiori dopo l’avvento della fisica quantistica e
delle leggi della genetica. L'opzione di Thiriart per la Gesellschaft meccanica contro la Gemeinschaft organica era evidente, nonostante il nome che egli aveva scelto per definire l’ideale sociale di Jeune Europe: il «comunitarismo».
Questo vocabolo, autentica antitesi nel linguaggio sociologico e
filosofico di ciò che Thiriart pensava veramente, doveva suscitare delle
controversie e non pochi quiproquo. Alla fine, nella logica di Hobbes, quale l’aveva presentata Vialatoux, il concetto di totalitarismo si unisce a quello di «politica pura»,
cosa che resta da dimostrare, perché i tre o quattro ultimi decenni che
abbiamo appena vissuto hanno provato che le tecniche di manipolazione
liberali, si sono rivelate più efficaci e più perverse. L'euclidismo
hobbesiano e thiriartiano, con la sua chiarezza e la sua trasparenza, è
stato soffocato dall’edulcorazione liberale e consumistica. Da
quest’opera di Vialatoux derivano anche il machiavellismo dimostrato da
Thiriart e la volontà di manipolare esseri e cose senza patemi d’animo.
Ora, se la constatazione che consiste nel dire che la manipolazione è al
cuore della politica è giusta, ha il merito di non farci cadere
nell’illusione, la manipolazione dei governanti non è sempre di puro
ordine meccanico perché, in questo caso, essa sarebbe troppo visibile e
immediatamente individuata, come lo era d’altronde in Thiriart, ma
spesso è più sottile, più psicologica, più organica e più centrata sugli
istinti e sulle patologie dello spirito. Alla fine, come Hobbes
designava la teologia come generatrice di dissensi civili, Thiriart
considerava le «cose dello spirito», la letteratura, la religione, le
ideologie sentimentali, come dei vettori di controversie sterili. La
visione hobbesiana della «guerra internazionale» corrisponde al rifiuto
di Thiriart di prendere in considerazione le ideologie e i sentimenti
irenici. Thiriart s'interessò prima di tutto di polemologia. E su
questi due ultimi punti, nessuno potrebbe dargli torto.
Gli interessi
comuni che condividemmo Thiriart ed io sono naturalmente la geopolitica
(ma Thiriart mi rimproverava di essere «haushoferiano»; tuttavia io non
sono «haushoferiano» più che «mackinderiano» o «kjelleniano» o
qualcos’altro, in quanto la geopolitica forma un tutto indivisibile) e
la storia delle formazioni territoriali. Thiriart rimproverava ad
Haushofer di essere un «regionalista», divisore di Stati e di Imperi,
prendendo a pretesto il fatto che egli aveva difeso la germanicità del
Sud-Tirolo nel 1927, nella sua opera Grenzen (Frontiere). Ora, in
quest’opera, Haushofer tratta specialmente delle nozioni di «frontiere
strutturate e smembrate»; gli Stati sostenibili debbono avere frontiere
organizzate e non frazionate (annettendo la Lorena, l'Alsazia e la
Franca-Contea, la Francia smembrò la frontiera occidentale dell’Impero e
lo condannò all’insignificanza politica). Fu Richelieu l’inventore di questi concetti e Vauban,
il tecnico che li concretizzò. Haushofer notava, a proposito del
Sud-Tirolo, che l'Austria, e pertanto la Germania che già auspicava l'Anschluß,
avevano perduto un versante in direzione della pianura del Po e
dell’Adriatico e che così le loro frontiere era smembrate. L'intenzione
di Haushofer non era dunque per nulla di fare del «regionalismo» ma di
ragionare in termini di potenza, secondo la stessa logica di Richelieu.
Oltre a questa predilezione per la geografia politica, Thiriart era
appassionato per i meccanismi di presa del potere (Lenin, Jules Monnerot), per la tecnica del colpo di Stato (Malaparte). Due
idee di Thiriart da mantenere in ogni campo: dotarsi, in ogni
circostanza, di un «polmone esterno», cioè avere una base di ripiego
sicura, una riserva inaccessibile di materiale o di argomenti. Infine,
forgiare delle alleanze extra-europee in politica estera perché
l’europeismo di Thiriart non è per niente uno sterile ripiegamento
dell’Europa su se stessa. La debolezza del pensiero di Thiriart è di
non avere suggerito niente di ben solido in diritto (costituzionale o
amministrativo) o in economia. Thiriart, due mesi prima di morire, mi
rimproverò il contenuto del mio articolo Vers l'unité européenne par la révolution régionale? (cf. R. S., Testi e riflessioni), precisamente perché questo testo pubblicizzava un’organizzazione territoriale del grande ensemble
europeo sulla base di criteri oggettivi quali la regione storica o la
nazione etno-linguistica, criteri che Thiriart si ostinava a credere
soggettivi e non oggettivi, mentre i soggettivismi sono dei fatti del
mondo oggettivo. Tale era, fondamentalmente l’oggetto della nostra
questione! Questione che ha basi filosofiche che si individuano
perfettamente nella lettura fatta da Thiriart del lavoro di Vialatoux.
Tuttavia, io rimango felice di aver permesso a Thiriart, senza dubbio
involontariamente e indirettamente, di vivere le sue due ultime grandi
gioe. In effetti, io consigliai a Michel Schneider di aprirgli le colonne di Nationalisme et République, cosa che fu fatta. E quando Alexandr Dugin,
il 31 marzo 1992, mi chiese a Mosca se Thiriart desiderasse tenervi una
conferenza, io gli dissi che ne sarebbe stato entusiasta, che egli
l’avrebbe sentita come il coronamento della sua carriera. E Thiriart si
recò a Mosca nell’agosto 1992, dove incontrò il Colonnello Alksnis e Yegor Ligatchev,
molto intrigati dal fatto che i NR o la ND europeo-occidentali non
fossero degli anti-sovietici arrabbiati, soprattutto dopo il discorso
fatto a Mosca da Alain de Benoist, in sua presenza, per ottenere
la liberazione dei prigionieri politici della disavventura dell’agosto
1991 che, personalmente, ho trovato maldestra e fuori luogo, un gesto da
desperados.
Thiriart
e de Benoist, per una volta d'accordo, non erano del mio avviso.
Questione di prospettiva, senza dubbio. Ma Carl Schmitt non ci ha
insegnato le virtù dell’amnistia? L'errore dell’agosto 1991 è fallito
così rovinosamente che il perdono s’impone. Speriamo che Boris Eltsin
non sia così ottuso come lo Stato belga, che poco a poco si esaurisce,
specialmente a causa dei residui della repressione del 1944-51, che la
Fiandra, offesa e straziata, non ha mai accettato. E, detto tra
parentesi, tanto meno Thiriart.
Al
di là della morte di Jean Thiriart, confidiamo che le generazioni
future, qualunque siano le loro opinioni filosofiche, non dimentichino
le teorie insuperabili che insegnava la scuola dei quadri di «Jeune
Europe». E che esse ricevano stimoli dalle opere di Hobbes, Pareto,
Mosca, Michels, Tchakhotin, Lenin, Machiavelli, Clausewitz e Schmitt.
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