La guerra finanziaria euro-statunitense
Con Alessandro Volpi
Lo scorso marzo, Markus Krebber, amministratore delegato di Rwe, una delle principali aziende energetiche tedesche, ha dichiarato che è improbabile che l’industria nazionale si riprenda ai livelli pre-guerra in Ucraina, poiché i prezzi elevati del gas naturale liquefatto importato hanno collocato la più grande economia europea in una posizione di “svantaggio”.
Secondo il Leibniz-Institut di Halle, a marzo il numero di fallimenti aziendali in Germania è aumentato del 9% su base mensile, a 1.297 unità. Il valore attuale è superiore del 35% rispetto a marzo 2023 e del 30% più alto della media di marzo per gli anni 2016-2019.
Samantha Dart, responsabile della ricerca sul gas naturale presso Goldman Sachs, prevede una riduzione permanente della capacità industriale europea, anche a causa delle iniziative statunitensi. Da un sondaggio condotto lo scorso settembre dalla Camera di Commercio e dell’Industria tedesca è infatti emerso che il 43% delle grandi aziende industriali stava pianificando di trasferire le proprie attività al di fuori della Germania, con gli Stati Uniti come destinazione principale.
Oltre all’energia a basso costo, con prezzi del gas pari a un sesto di quelli europei, sono i sussidi previsti dall’Inflation Reduction Act ad attrarre le aziende europee. Lo scorso anno le società tedesche hanno annunciato un record di 15,7 miliardi di dollari in impegni di capitale per progetti statunitensi, in netto aumento rispetto agli 8,2 miliardi di dollari dell’anno precedente.
Dal momento che gran parte del tessuto produttivo europeo è integrato nella catena del valore tedesca, il crollo della Germania trascinerebbe con sé il resto del “vecchio continente”, Italia compresa. Simultaneamente, si assiste a un crescente attivismo dei grandi fondi statunitensi in Europa, che risponde con i documenti dal contenuto assai pericoloso stilati da Enrico Letta e Mario Draghi. L’Europa è diventata terreno di caccia degli Stati Uniti? Proviamo a comprenderlo assieme ad Alessandro Volpi, saggista e docente di Storia contemporanea presso il Dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Pisa.
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